Fitness, ori olimpici e rugby: nel mondo di Matteo Artina

L’uomo di fiducia di Sofia Goggia e Michela Moioli lavora anche con l’ovale. E approfondisce un tema molto in voga per l’Italia

Matteo Artina con Sofia Goggia, medaglia d’oro a PyeongChang 2018

Se l’Italia, alle ultime Olimpiadi Invernali di PyeongChang, ha raccolto tre medaglie d’oro, il merito è anche suo. Stiamo parlando di Matteo Artina, preparatore atletico bergamasco che fra le campionesse seguite in avvicinamento ai Giochi coreani può annoverare Sofia Goggia e Michela Moioli, rispettivamente regine di discesa libera e snowboard cross.

Ma per Artina non ci sono solo gli sport invernali. La lunga stregua di discipline in cui è impegnato prevede infatti anche il rugby: un passato da giocatore, poi le avventure col Rugby Monza femminile e l’attuale collaborazione col Parabiago, oltre ad un passato nel Comitato Lombardia Rugby Area Est. Uno che i campi, in diversi ruoli, li ha respirati.

Con lui abbiamo  cercato di capire come si possono mutuare esercizi da sport diversi, ma anche l’evoluzione della preparazione fisica focalizzandoci su una parola chiave del rugby di alto livello: quel fitness su cui Conor O’Shea continua a battere il tasto praticamente da quando è arrivato alla guida della Nazionale, ma che è un chiodo fisso anche del CT dell’Inghilterra, Eddie Jones.

Matteo, ti occupi di varie discipline con priorità ovviamente diverse: come riesci a passare da un ambito all’altro e da un gruppo di lavoro ristretto ad un collettivo, come può essere quello di una squadra di rugby?
Prima di tutto è necessario capire con quali sport abbiamo a che fare: io, ad eccezione di qualche piccolo progetto incentrato sulla resistenza, mi sono sempre focalizzato su discipline di forza e forza-velocità.
Per lavorare su diversi sport, e con gruppi di persone numericamente differenti, l’unica cosa che serve è studiare e documentarsi: alla fine passare da pochi atleti ad un collettivo non è poi così difficile. Certo, possono cambiare i rapporti e le dinamiche; ma devo dire che quando mi sono parametrato con delle squadre ho sempre trovato degli staff che mi hanno lasciato lavorare.

In questi giorni abbiamo visto delle immagini dove con Sofia Goggia e soprattutto con Michela Moioli hai lavorato su dinamiche simili, ma in situazioni diverse. Questo nel rugby è fattibile oppure è uno sport che dovrà rimanere fedele sempre ad un programma di esercizi?
Con una battuta ti potrei dire che nessun esercizio funziona, finché non lo fa un americano su YouTube.
È chiaro che ciò che viene svolto deve avere una finalità. Questo lo posso proporre se conosco quale risultato dovrò ottenere. Nel caso della Moioli, farla allenare su un tappeto elastico, mentre si faceva passare un disco da 10kg intorno al corpo, serviva a stimolare le sue doti per eventuali contatti che avvengono spesso nello snowboardcross. In quel caso abbiamo toccato la dissociazione motoria di tronco e gambe, questa è una cosa che potrebbe imparare anche un rugbista nell’età adolescenziale. Una dote sviluppata può essere portata avanti poi nel tempo.
L’importante è far capire a chi lavora con noi che non stiamo facendo esercizi di stile, ma lavoriamo per arrivare ad un risultato. In fondo il preparatore è un po’ come un giocatore di biliardo: ha la possibilità di imbucare la palla dove vuole, ma prima deve dichiarare dove.

Si possono quindi mutuare esercizi da vari sport ed applicarli su altre discipline come il rugby?
Assolutamente. Si possono svolgere esercitazioni dove si impegna il corpo anche in maniera generale. Magari è necessario apportare qualche variante nelle caratteristiche di carico o nella velocità di esecuzione, ma è una cosa fattibile. Abbiamo visto anche squadre che per aiutarsi nel migliorare la tecnica di placcaggio hanno lavorato con istruttori di judo (di recente lo ha fatto l’Inghilterra, ndr).

Nel mondo di Ovalia hai collaborato con il Monza femminile e ormai da qualche anno sei la guida atletica del Parabiago: riesci a descriverci un po’ le differenze e le evoluzioni del metodo?
Quando sono arrivato a Parabiago venivo da un’esperienza di sei anni con il Comitato Lombardia Rugby Area Est, dove ho lavorato con ragazzi di 16 anni. Lì mi sono fatto le ossa, perchè quella è una fascia d’eta piuttosto difficile con cui confrontarsi.
Sia con il Parabiago che con il Monza, poi, ho svolto lo stesso lavoro: nessuna differenza. Gli allenatori mi hanno aiutato in maniera eccellente. Abbiamo lavorato su diversi aspetti integrando lavoro fisico e tecnico. Concettualmente puoi magari metterci più tempo, ma poi tutti ne avranno un vantaggio. E devo dire che ha funzionato: con le ragazze è arrivato lo scudetto, mentre con i ragazzi partendo dal basso siamo arrivati sino all’attuale Serie A.
Inoltre, con un discorso a medio-lungo termine, siamo riusciti anche a lavorare sui fondamentali: corsa, dinamismo e forza. Squat, pesi e mobilità articolare sono tutte cose che riducono i problemi e aumentano i benefici. Pensiamo ad un pilone, ad esempio: una prima linea mobile è sempre stata vista come un’eccezione, ma se invece pensiamo che lui debba avere queste caratteristiche forse è il caso che ci si lavori su.

Conor O’Shea lega spesso il fitness ai ragionamenti sul rugby di alto livello: tu che ti occupi proprio di questo, cosa ne pensi? Quanto tempo secondo te occorre per compiere un grande salto come quello che deve fare la nazionale italiana?
Il presupposto da cui parte e il tasto su cui batte mi trovano d’accordo. Il livello di fitness però non va visto solo con la massima prestazione che un rugbista può riuscire ad esprimere. Ciò può avere più standard valutativi: il recupero all’interno di una partita, su determinate situazioni che si presentano, e la capacità di “rigenerarsi” nel post match, quello che ti permette di iniziare a svolgere delle attività anche nel giorno susseguente ad un incontro giocato.
Secondo me, è necessario capire come sviluppare e trasferire queste capacità: non è però una cosa facile, i tempi sono dilatati. Servono mesi per incamerare questo e riuscire a ritrovarlo in gara. È un lavoro lungo che però non può essere procrastinato. La cosa migliore è inserirlo nell’adolescenza dei prospetti, per poi continuare a conservarlo e svilupparlo.
In tutto questo poi, c’è una cosa da non fare: confondere il fitness col modello prestativo, che invece può essere soggetto a situazioni contingenti di gara. Infine va ricordato che allenare i volumi di lavoro è una cosa, mentre lavorare sull’intensità è un’altra.

Quali sono le differenze fra questi due aspetti, fitness e modello prestativo appunto, e perchè non vanno confusi?
Se si guarda ad uno sport, si identifica il modello prestativo: in pratica, la trasposizione di ciò che succede in gara o in allenamento.
Vi sono numerosi parametri, come gli scatti o i tempi di recupero fra un’azione e l’altra, che riescono a far capire quello a cui è sottoposto un atleta in campo. Questo fornisce già tante informazioni, ma in realtà non ti dice tutto perchè ad esempio può non rivelare cosa potrebbe succedere tra una fase di gioco ed un’altra. Bisogna osservare tutto in maniera trasversale.
In più, esaminiamo un gesto come quello dello scatto: è chiaro che i miei indicatori saranno diversi fra l’inizio della gara e la fine, anche se in entrambi i casi avrò dato tutto, poichè la stanchezza muscolare ed energetica va messa in conto ed è qui che arriviamo al principio di avere un buon fitness. Quel parametro definisce la durabilità di uno sforzo fisico, che dipende da quanto mi affatico mentre lo faccio e quanto recupero mentre non lo faccio.
Abituàti quindi a vedere il rugby come uno sport dove il singolo giocatore era chiamato a fare un lavoro di alta intensità per una durata limitata, ma con dei tempi comunque lunghi, ci si è resi conto che non potevamo “tirare” quel tipo di sforzo per ottanta minuti, perchè probabilmente non era così di alto livello.
Spesso e volentieri poi, passando ai volumi di gioco, si può incontrare un’altra difficoltà: quella di produrre qualcosa, ma non abbinarlo all’intensità e quindi appena si va ad alzare il ritmo ci si trova “sulle gambe”.
Pulire una ruck in tre secondi – aldilà della buona riuscita dell’aspetto tecnico – è una cosa, ma farlo nella metà del tempo poichè gli avversari ti costringono a giocare in maniera molto più rapida è un altro paio di maniche. A quel punto sarà necessario lavorare sulla capacità dei giocatori di anticipare e prevedere il lavoro da fare: questo aiuterà il gioco e anche il fitness. D’altronde è meglio sempre rimanere in movimento con un ritmo di corsa leggero, ma che può alzarsi in ogni evenienza, piuttosto che dover continuare a scattare per andare ad intervenire in ogni singola situazione di gioco.
E’ un lavoro che richiede tempo, ma che darà i suoi frutti: se in allenamento si riesce a sviluppare una mole d’intensità di sei minuti che preveda cinque minuti come tempo di recupero questo porterà indicativamente a diciotto minuti di intensità ogni mezz’ora di gioco e questo sarebbe già un ottimo risultato. Tanto nessuna squadra riesce a fare nè quaranta nè tanto meno ottanta minuti al massimo.

Ultima domanda: se ti proponessero, senza rubare il lavoro a nessuno, di diventare il preparatore della nazionale tu accetteresti?
No, perchè conosco bene il preparatore della nazionale e so come lavora. Al massimo vorrei essere al suo fianco. Stare a contatto con Giovanni Sanguin per me sarebbe un motivo di vanto.

Michele Cassano

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