Per Giovanbattista Venditti è stata una stagione diversa dal solito

Abbiamo intervistato l’ala bianconera, che ci ha parlato del suo anno particolare e anche di alimentazione

venditti

ph. Luca Sighinolfi

Giovanbattista Venditti è un abruzzese doc, per cui non potevamo non partire da un commento sulla partita che le Zebre giocheranno a L’Aquila contro i Dragons ad aprile. “Mi fa molto piacere, è tantissimo tempo che non gioco dalle mie parti. Penso sia un’iniziativa importante, perché quest’anno siamo tornati al 100% federali e uno dei nostri slogan è ‘Le Zebre di tutti’, che è anche il motivo della maglia nuova di quest’anno – ci dice Venditti – Sono sicuro che il pubblico abruzzese risponderà alla grande. È terra di rugby: c’è grande tradizione a L’Aquila, Avezzano e dintorni; sono sicuro che sarà una grandissima cosa e anche un banco di prova per le Zebre, per vedere come si può organizzare una cosa del genere.” Con On Rugby, però, il 27enne ha toccato anche altri argomenti, a partire dalla stagione dei ducali fino all’alimentazione.

Venendo alle Zebre, invece, ti chiedo quali obiettivi vi siete posti per questo finale di stagione, sia dal punto di vista dei numeri, quindi di punti da fare da qui alla fine, sia dal punto di vista del gioco.
Ovviamente scendiamo sempre in campo per vincere, ma sappiamo che ci sono partite proibitive come le trasferte a Glasgow e Dublino. Abbiamo purtroppo sprecato quest’occasione contro Cardiff in casa, avremmo avuto sabato gli Ospreys ma è stata rimandata a fine aprile. Conro i Dragons è da bollino rosso, perché dobbiamo vincere a tutti i costi, per non parlare poi del derby contro Treviso. Ci sono possibilità per fare punti.
Dal punto di vita del gioco abbiamo fatto vedere grandi miglioramenti palla in mano. Oramai è questa la nostra impronta e vogliamo continuare a percorrere questa strada, perché sta portando i frutti sperati. Dobbiamo essere più concreti, meno indisciplinati in difesa.

Con Bradley abbiamo visto che è cambiato molto in campo per quanto riguarda piano di gioco e tattica. Per te, all’ala, è cambiato qualcosa nell’interpretazione della partita?
La preparazione è rimasta un po’ la stessa, quello che cambia sono i numeri. Per troppi anni abbiamo calciato tantissimi palloni e fatto un gioco molto più chiuso. Tutto per paura di esporsi. Il focus era prima sulla difesa. Adesso è cambiato tutto: abbiamo molto di più la palla in mano, il possesso aumenta e tutti abbiamo possibilità di giocare. Noi ali siamo servite molto di più e riusciamo a toccare più palloni. Non è un caso che in molte statistiche (line break, difensori battuti, offload…) alcuni giocatori delle Zebre siano al top. Se entriamo di più dentro il campo? Quell’intenzione c’è sempre stata, ma prima calciavamo sempre e si giocava meno. Quando entravamo in zona punti, negli ultimi 40 metri, giocavamo di più con gli avanti e i palloni erano pochi. Ora ovviamente avendo più palloni non possiamo affidarci solo al pack o lasciare che i centri facciano quindici penetrazioni a testa, quindi tocca anche a noi di entrare di più nel gioco. Poi abbiamo la fortuna di avere Carletto Canna che gestisce tutto al meglio.

Fuori dal campo, invece, nel gruppo e nella vostra cultura di squadra cosa è cambiato invece?
In questi anni siamo sempre stati molto uniti, anche perché le situazioni societarie sono state un bel macigno. Se c’è una squadra in questo Guinness Pro14 che può definirsi unita siamo noi, con tutto quello che c’è stato. Quest’anno abbiamo la fortuna di non avere questi macigni vista la nuova società, ma anche il nuovo staff sta dando serenità. Il gruppo ha meno pressioni addosso. Siamo più tranquilli, ci focalizziamo solo sul rugby.

Alle Zebre sei uno dei veterani, essendo a Parma fin dall’inizio. Con il passare delle stagioni senti di avere qualche responsabilità in più all’interno dello spogliatoio?
In questi anni in tanti hanno abbandonato: chi si è ritirato, chi è andato via… Del primo anno siamo rimasti in pochissimi e sì, tante cose sono cambiate. Quando racconto le prime esperienze in Celtic i più giovani non ci credono. Potremmo scrivere un libro molto molto divertente sulle trasferte (ride, ndr). Quando giochiamo fuori, a colazione, pranzo e cena le vecchie storie sono belle e io fortunatamente sono uno dei narratori, perché come hai detto sono qui dall’inizio.

Sul piano personale è una stagione forse un po’ atipica per te, visto che non sei stato impegnato con la Nazionale finora. C’è qualcosa in particolare su cui stai lavorando per cercare di riconquistarti un posto nell’Italia, qualcosa con cui hai avuto modo di parlare magari con Conor O’Shea?
Di imparare non si smette mai, anche sui punti fondamentali. Le cose strane di questo anno sono stati tutti i piccoli infortuni che ho avuto. Non sono abiutato a giocare così a intermittenza: negli ultimi 6-7 anni, quando stavo bene, giocavo sempre titolare. Una volta passata la pre-stagione, era un continuo giocare, stavo sempre in allenamento e bene fisicamente.
Invece quest’anno tra la botta in testa, dei problemi alla mano e alla spalla e l’età che avanza (ride, ndr) non ho giocato con la solita continuità e quindi è giusto lasciare spazio a chi ha fatto un grande inizio di campionato. Ora sono entrato pienamente a regime, sto bene e ho trovato continuità. Tornare a vestire l’azzurro è uno degli obiettivi, ma senza troppo stress. Ovviamente la competizione sposta l’asticella un po’ più su e quindi è mio dovere cercare di migliorarmi come faranno anche tutti.

In periodo di Sei Nazioni sappiamo che le Zebre vengono private di molti elementi e il gruppo si riduce inevitabilmente. Cambia qualcosa nel modo di lavorare e ci sono vantaggi nel lavorare a ranghi ridotti?
Ci sono dei vantaggi se non hai partite da preparare. Per esempio, ora abbiamo due settimane senza giocare e essere in pochi può aiutare. Facciamo un lavoro più dettagliato. Se ci sono partite poi abbiamo bisogno di numeri in campo, ma per fortuna abbiamo società di Eccellenza che ci hanno dato una grandissima mano, sia con i permit players sia con gli allenamenti congiunti con Viadana, Calvisano o Reggio. Penso facciano bene a tutti, sia a loro che si allenano con intensità maggiore e sono più stimolati, sia a noi dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, perché a ranghi ridotti siamo abituati per esempio a difendere le nostre stesse giocate, mentre difendere giocate che non conosci contro giocatori che non conosci dà qualche difficoltà in più.

L’ultimo argomento che volevo affrontare non è strettamente rugbistico, ma è l’alimentazione. Tu sei laureato in scienze dell’alimentazione per l’appunto, quindi non posso che affrontarlo con te. Conor O’Shea ha spesso ripetuto come questa sia una delle cose da migliorare nel rugby italiano, alla pari per esempio del fitness. Ci sono stati effettivamente dei cambiamenti?
Grossi cambiamenti non ce ne sono stati, e ti spiego il perché. Quando andiamo in Nazionale abbiamo un’alimentazione vasta, nel senso che c’è un buffet molto grande. Dipende tutto dalla persona, insomma. Ci sono più controlli perché gli allenamenti sono più intensi, quindi se non hai mangiato correttamente un po’ di fatica la fai. Bisogna stare attenti due volte: nel mangiare qualcosa in più o in meno, perché c’è anche chi non si alimenta abbastanza. I problemi sono di cultura e responsabilità personale. In Nazionale hai tutto a portata di mano e quindi è un attimo che ti scappa la forchetta.

È il singolo che deve imparare a gestirsi quindi.
Assolutamente sì. L’importanza dell’alimentazione è enorme per mantenere una certa forma fisica. Noi ci alleniamo al massimo quattro ore al giorno, nelle altre venti è mangiare e dormire. E sul peso contano.

Daniele Pansardi

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