Come dobbiamo giudicare la stagione di Benetton e Zebre?

Servivano risposte concrete dopo annate davvero buie. Ora si vedono progetti interessanti, prestazioni importanti e vittorie

ph. Ettore Griffoni

“Irlandesi, gallesi e scozzesi, otto mesi fa, con Unions e Pro14 hanno analizzato quanto stavamo facendo e ci hanno fatto notare che non stavamo facendo le cose giuste”. A gennaio, in occasione della presentazione del Sei Nazioni 2018, Conor O’Shea faceva capire come la posizione dell’Italia all’interno della lega celtica fosse decisamente in bilico, visti gli scarsi risultati ottenuti da Benetton e Zebre negli anni precedenti.

Tra il 2013 (primo anno delle Zebre) e il 2017, del resto, le vittorie delle squadre italiane contro le consorelle estere (esclusi i derby, quindi) erano state in totale 32, con una media di 6,4 a stagione in due decisamente lontana dalle aspettative iniziali. Comprensibile, dunque, la preoccupazione delle dirigenze del torneo, delle altre franchigie e delle altre Federazioni nei confronti di una rappresentanza italiana che non poteva essere considerata redditizia per la competizione nel suo complesso, sia dal punto di vista sportivo sia dal punto di vista economico.

Storicizzando quelle dichiarazioni di O’Shea, e alcuni retroscena svelati in un secondo momento, si può intuire anche a distanza di mesi che dopo quella riunione al movimento italiano erano rimaste ben poche fiche per convincere tutti (board celtico, Federazioni, media nazionali e non) della bontà del progetto tecnico presentato dal presidente Alfredo Gavazzi e dal CT irlandese.

Quali erano queste fiche? La continuità del progetto di Kieran Crowley e Antonio Pavanello al Benetton Treviso, che aveva finito bene la stagione 2016/2017; un clima più sereno per le Zebre, dopo i fallimenti della gestione privata, e l’arrivo di talenti molto interessanti dall’Eccellenza; l’arrivo di Michael Bradley alla Cittadella di Parma, di cui si era fatto garante lo stesso Conor O’Shea. I dubbi, in ogni caso, superavano le certezze.

Eppure, dopo poche settimane dall’inizio del torneo, ci si è resi conto che il rilancio italiano stava cominciando a pagare i primi dividendi: il Benetton stava effettivamente raccogliendo i frutti di quanto seminato l’anno precedente, mentre le Zebre avevano assunto una nuova identità e inaugurato a tutti gli effetti un percorso illuminato sotto la guida di Bradley, nonostante una rosa troppo corta.

Le due squadre hanno poi seguito parabole differenti, com’era naturale che fosse vista la differenza di cilindrata e di profondità, ma entrambe hanno dimostrato di essere realmente competitive e di avere la caratura giusta per competere ad armi pari quasi con tutti a livello di Pro14. Soprattutto, hanno fatto vedere un progetto di gioco su cui lavorare, e delle fondamenta non più paragonabili a sabbie mobili in cui divincolarsi per sopravvivere.

Un nuovo inizio

Alle 32 vittorie contro squadre estere accumulate in cinque anni, menzionate prima, fanno da contraltare le 15 (su 39 partite) conquistate nel solo 2017/2018, ovvero quasi il triplo considerando il dato medio di 6,4. A confortare, più dei risultati e dei successi ottenuti, è anche il modo in cui sono arrivate, ovvero credendo fino in fondo in piani di gioco e strategie ben precise in cui far rendere al meglio il materiale umano a disposizione.

Il Benetton, per la prima volta capace di chiudere con un record positivo il campionato, aveva cominciato in sordina segnando solo 3 punti nei 140′ di gioco tra la prima e la seconda giornata. Negli ultimi venti minuti della partita contro Ulster, nonostante la sconfitta, qualcosa si è poi finalmente sbloccato e i Leoni hanno realmente iniziato a mettere in mostra le proprie qualità.

Avendo a disposizione una rosa piuttosto allargata (e con diffusa qualità, grazie ad innesti rivelatisi di assoluto valore), Kieran Crowley e lo staff tecnico non hanno puntato su un gioco estremamente complesso in attacco, mentre nei primi mesi hanno posto l’accento soprattutto sull’efficacia delle fasi statiche e su una difesa attenta e che avesse un impatto notevole sugli avversari a livello fisico.

La predominanza muscolare è stata anche alla base delle idee offensive, vista la presenza di ball carrier come Negri, Douglas, Brex, Steyn e Barbieri che avevano il compito di spianare la strada per poi giocare la parità o la superiorità numerica al largo, sfruttando in genere un buon scaglionamento dei quindici uomini sul campo. Nelle giornate migliori, Treviso si è distinto per le ottime capacità di conservare e gestire il possesso, proprio grazie ad un pack a cui Crowley ha affidato grandi responsabilità.

Una meta classica del Benetton 2017/2018, almeno fino a dicembre.

Gli infortuni di Brex e Esposito – tra i migliori nella prima parte – avrebbero potuto minare alcune delle certezze costruite in autunno, ma una serie di fattori hanno fatto sì che di entrambi non si sentisse poi troppo la mancanza: in primis, l’impatto devastante di Monty Ioane (10 mete in 15 presenze); la sua intesa con Marty Banks; un’esecuzione dei fondamentali più rapida ed accurata con il passare delle settimane, a testimonianza di come il lavoro settimanale in allenamento sia sempre rimasto di prim’ordine, e di conseguenza una consapevolezza sempre crescente.

Di altra natura, invece, il tipo di impronta lasciata finora da Michael Bradley sulle Zebre. Dovendo lavorare con un numero di giocatori inferiore, ma con appena una ventina di elementi di buona/ottima/pregevole fattura, l’irlandese ha scelto di seguire una strada volta alla creazione di un gioco più ricercato e sfavillante, che i migliori interpreti della squadra potessero padroneggiare al meglio ed eseguire ai massimi livelli possibili.

Se dovessimo guardare esclusivamente al lato estetico, allora le Zebre 2017/2018 sarebbero senza dubbio la miglior squadra italiana dell’era celtica. I bianconeri, nei loro momenti di massimo splendore, sono stati dei degni esponenti di quello che si può definire rugby moderno ai giorni nostri: punti d’incontro puliti rapidamente, pallone tenuto sempre vivo, tante opzioni per il portatore, inserimenti continui di avanti e trequarti a dare verticalità di tanto in tanto e difesa sempre pronta a salire rapidamente per togliere spazio all’esterno.

Un’identità precisa e riconoscibile che, facendo un paragone extra-rugbistico, può ricordare per certi versi il lavoro svolto da Maurizio Sarri con il Napoli nel costruire una squadra secondo dettami ben precisi, anche al costo di diventare prevedibile ma con la certezza di avere un’esecuzione ai massimi livelli possibili per il contesto.

L’azione manifesto della rinascita bianconera.

Le Zebre, liberatesi della scimmia dei problemi societari, hanno espresso questo gioco scintillante, imprevedibile e estremamente rischioso per gran parte dell’anno, pur peccando un po’ di concretezza in alcuni momenti della stagione, sia a causa dell’adattamento delle altre squadre alle nuove trame bianconere sia per la scarsa profondità – qualitativa, non numerica – nella rosa, che non ha permesso a Bradley di concludere al meglio certe partite o di approcciarne con il giusto piglio altre ancora.

Quando venivano toccati troppi ingranaggi, infatti, i ducali perdevano la brillantezza tipica delle partite in cui a giostrare il gioco erano Canna, Castello e Minozzi e in avanti a dare dinamismo e forza fisica ci pensavano Giammarioli, Mbandà, Licata (fino a dicembre), Biagi e Fabiani.

Ciò nonostante, anche le Zebre sono riuscite nell’impresa di far segnare il nuovo record di vittorie in una singola stagione di Pro14. Da una parte, è la dimostrazione della forza delle idee di uno staff tecnico abile a creare strutture e schemi adatti ai propri giocatori; dall’altra, può anche essere letta come un messaggio da recapitare a chi è delegato alla costruzione della rosa: meno stranieri inutili, più giovani italiani pronti a sporcarsi le mani per scalare la piramide del rugby italiano. I titolari potrebbero essere gestiti con maggiore parsimonia e, forse, anche in Challenge Cup il tasso di competitività potrebbe alzarsi rispetto a quanto dimostrato quest’anno.

Dal punto di vista manageriale, il Benetton si ritrova senz’altro in una posizione migliore. Dall’estero sono arrivati solo elementi adeguati al livello della squadra, mentre per il prossimo anno arriveranno – com’è probabile – anche i più giovani più interessanti della classe 1998, ovvero Rizzi, Cannone e Lamaro.

Dove Treviso dovrà crescere ancora è nell’atteggiamento mentale, per evitare di prendere le montagne russe e passare dal battere i Dragons a fatica in casa al vincere contro il Leinster in trasferta, per poi perdere con una prestazione del tutto negativa contro le Zebre (battute due volte a dicembre) in casa. Ma è anche vero, come ci ha ricordato per esempio Federico Ruzza, che solo “vincere ti abitua a vincere”.

Mettendo sulla bilancia pro e contro, insomma, la stagione può serenamente essere considerata positiva. Serenamente, già: perché in un ambiente italiano disilluso dall’alto livello e dall’avventura internazionale nel campionato celtico, spesso è più facile trincerarsi in un pessimismo cronico – in parte anche giustificabile – quasi oscurantista, per il quale tutto è destinato a fallire inesorabilmente, che apprezzare degli evidenti passi in avanti e riconoscere una visione – ora sì – futuribile da parte del movimento italiano. La strada è ancora in salita, seppur con pendenze meno aspre di un’estate fa, e di quel (maledetto) tunnel almeno nel Pro14 si vede più di un semplice barlume di luce.

Daniele Pansardi

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