Una sconfitta inaccettabile e una vittoria normale

Quattro canoniche tappe per ripercorrere il percorso azzurro delle due ultime settimane, che non può essere positivo

italia allan 2018

ph. Sebastiano Pessina

Quando il linguista e antropologo russo Vladimir Propp condusse delle ricerche su un’ipotetica struttura narrativa comune a tutte le fiabe, lo studioso individuò uno schema generale nei testi analizzati diviso in quattro parti: 1) l’equilibrio iniziale, 2) la rottura dell’equilibrio iniziale, 3) le peripezie dell’eroe e 4) il ristabilimento dell’equilibrio, ovvero la conclusione. Per Propp, questo modello era applicabile ad ogni singola narrazione.

Nel 1928, data di pubblicazione di Morfologia di una fiaba, lui non poteva saperlo, ma novant’anni dopo ci sarebbe tornato utile per decriptare e sviscerare più in profondità il racconto della nazionale italiana durante le ultime due settimane trascorse in Giappone, che hanno seguito una parabola tutt’altro che nuova per gli azzurri e di cui abbiamo avuto altre testimonianze in tempi recenti: un apparente stato di quiete mista a diffidenza all’inizio, il ritorno alla realtà per mano dell’avversario di turno, il disperato tentativo di rimettere insieme i cocci e, alla fine, la prestazione degna di nota che evita il crollo totale e definitivo.

Un racconto in quattro tempi che ben si presta ad essere approcciata con il metodo proppiano, per cercare di capire cosa, come e dove la nazionale di Conor O’Shea ha sbagliato in fase di preparazione al primo Test Match e ha rimediato in vista del secondo, in cui si sono viste due squadre diverse. Cambiano i titoli enunciativi, ma non i princìpi e lo scandire del tempo.

1) La diffidenza iniziale

Propp parla genericamente di “equilibrio”, che però non sembra essere una parola affine alla situazione del rugby italiano. Alla vigilia della prima sfida contro il Giappone, in cuor suo ogni appassionato sa o teme di star andando incontro al peggio, un po’ per una sorta di ‘deformazione professionale’ e un po’ perché sono pochi i fattori che ispirano una grande fiducia nella nazionale di Conor O’Shea.

Le ottime prestazioni delle franchigie nel Pro14 non sembrano bastare e, nel frattempo, la diretta espressione della squadra nipponica – ovvero i Sunwolves – creano un ottimo momentum nel Super Rugby, che presumibilmente si traslerà nei Test Match.

Nel frattempo, all’interno del gruppo azzurro si respira il consueto ottimismo, perlomeno stando alle dichiarazioni dei protagonisti, e la preparazione sembra procedere per il meglio. Uscire dalla ‘bolla’ dello spogliatoio, al solito, potrebbe rappresentare il gradino più difficile da saltare per gli azzurri.

2) Il disastro 

La diffidenza si trasforma in sconforto a Oita, dove l’Italia incappa in una delle peggiori sconfitte degli ultimi anni sia per il modo in cui arrivava (34-17, doppiati nel punteggio), sia per il delicatissimo momento storico, sia perché gli azzurri non sembrano pronti a lottare su ogni pallone come ci si aspetterebbe dopo mesi trascorsi ad indicare le due vittorie come unico obiettivo possibile del tour.

Le scelte strategiche e tattiche dello staff tecnico, inoltre, si rivelano sbagliate e controproducenti, perché puntare su un ritmo lento e sulla sopraffazione fisica e nelle fasi statiche dell’avversario non è la direzione verso cui si sta muovendo il rugby mondiale oggi. Il Giappone, con un impianto di gioco ben più moderno, entra come il coltello nel burro dentro la disorganizzata e disattenta difesa azzurra.

Le note positive sono basse, quasi impercettibili, perché il rimbombo della campana che sembra annunciare il definitivo sorpasso del Giappone nelle gerarchie del rugby mondiale sugli azzurri copre comprensibilmente ogni cosa. C’è modo e modo di perdere, del resto.

3) Analisi e psicanalisi

Dopo la prestazione sotto ogni aspettativa degli azzurri, sembra ormai evidente che il Sei Nazioni giocato in quel modo non fosse solo dovuto al fatto di aver affrontato le migliori d’Europa, ma ad una realtà che mette l’Italia davanti allo specchio con tutti i suoi enormi limiti. Con l’aggravante di aver completamente sbagliato piano gara ed approccio mentale ad una delle partite più significative degli ultimi anni.

Scindere i due temi, inoltre, risulta complicato proprio perché sia lo staff tecnico sia i giocatori hanno responsabilità acclarate sulla brutta figura rimediata a Oita. Per Conor O’Shea, affrontare i problemi dalla giusta angolazione e con il giusto tempismo diventa di fondamentale importanza per rattoppare il vestito in vista della seconda sfida. Le ancore di salvezza non mancherebbero in teoria, a partire da un’inversione di tendenza per quanto riguarda i princìpi di gioco e ad una diversa composizione della panchina.

E come reagirà il gruppo? Avrà avuto una piena presa di coscienza di quanto accaduto? Sarà stato punto nell’orgoglio quanto basta? Per cercare di smuovere le acque parla con la squadra anche il presidente Alfredo Gavazzi: la situazione è seria, quasi grave.

4) Il defibrillatore funziona

La partita a Kobe inizia sulla falsariga di quanto visto una settimana prima: prolungato possesso azzurro, difficoltà a conquistare con continuità a linea del vantaggio e uscite del pallone dalla base ancora al di sotto della velocità necessaria.

Pian piano, però, l’Italia ingrana le marce più alte e prende fiducia con la meta in contropiede di Benvenuti, aumentando (finalmente) i giri del motore e dimostrando come la vera identità degli azzurri sia proattiva, dinamica e a intensità sostenuta, e non conservativa, piatta e a scartamento ridotto. L’Italia nasconde il pallone ai nipponici per quasi un’ora di gioco e il punteggio è quantomeno una rarità: 3-19.

Ma è l’atteggiamento degli azzurri ad essere piacevolmente cambiato, perché Ghiraldini&co. lottano come non mai sui punti d’incontro (si contano ben due controruck, altra rarità) e sono ben più efficaci anche in difesa. Ancora una volta, con le spalle al muro e dopo aver rimediato un potente ceffone, gli azzurri si riscoprono una squadra capace di giocare “ad un livello differente”, come dice O’Shea.

Il calo negli ultimi venti minuti è tanto fisiologico quanto difficile da accettare, ma il piede fermo di Allan e la capacità di soffrire fino al fischio finale regalano una vittoria insperata appena sette giorni fa agli azzurri.

Cosa ci dice la storia

L’insegnamento, al termine della fiaba dello psicodramma azzurro, è duplice. Uno è tecnico: se al 50′ l’Italia è avanti 3-19 dopo aver gestito il pallone per gran parte del tempo con competenze e ritmo importanti per il livello desiderato, la strada in questo senso non può che essere tracciata.

Soprattutto di questi tempi, la miglior difesa per gli azzurri è l’attacco: se i nipponici non hanno segnato fino al 60′, non è a causa di una fase difensiva irresistibile, ma per una fase offensiva propositiva (non scellerata) e ben organizzata che ha permesso di avere quasi sempre il pallone a disposizione. Aumentano, di conseguenza, le perplessità per un primo Test Match giocato in maniera più approssimativa e sparagnina da questo punto di vista.

Il secondo insegnamento, più inquietante, è l’enorme differenza di atteggiamento, intensità e voglia di sconfiggere fisicamente l’avversario emersa tra il primo e il secondo match. L’attitudine – in teoria standard per tutte le altre squadre di livello mondiale – della sfida vinta a Kobe, tuttavia, sembra ancora essere un’eventualità eccezionale per gli azzurri, che viene espressa solo quando si è con un piede e mezzo oltre l’orlo del baratro.

Di esempi del genere ne è piena la storia recente italiana, anche se non sempre culminati con una vittoria: il penultimo, freschissimo, risale alla sfida contro la Scozia al Sei Nazioni. Prima ancora – ma non troppo – si può tornare indietro al giugno 2017 con la partita in Australia. E così via.

Anche per questo, se si dovesse dare un giudizio tranchant sulla trasferta azzurra in Giappone questo non potrebbe che essere negativo. Sul piatto della bilancia, del resto, il peso di una vittoria normale – ovvero arrivata con l’atteggiamento e il rendimento da tenere di consueto – non può pareggiare quello di una sconfitta pesante e senza giustificazioni.

Il Giappone ha fatto capire all’Italia chi è e cosa potrebbe essere, ma anche cosa è capace di diventare quando non tutte le luci si accendono nell’ordine ideale. Non trarre giovamento dalle lezioni delle ultime due settimane sarebbe delittuoso.

Daniele Pansardi

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