Dialogo appassionato sui problemi della nazionale inglese dopo la vittoria di Cape Town che ha portato la serie di giugno sul 2 a 1
A dead rubber, così si definisce nel gergo sportivo anglosassone una partita che non conta oramai più niente ai fini del risultato finale di una serie. Lo è stato, ad esempio, la partita tra Sudafrica e Inghilterra di sabato scorso, che ha visto l’Inghilterra prevalere sul Sudafrica nel terzo incontro della serie a Cape Town, concludendo così sul due a uno la finestra internazionale che vedeva di fronte i bianchi di Eddie Jones ai nuovi Springboks di Rassie Erasmus.
Sul terzo episodio della sfida gravava una pesante pressione, da parte inglese. Un tre a zero (uno sweep, per restare al gergo inglese) sarebbe stato assai difficile da digerire per tifosi, staff tecnico e giocatori, tanto che c’era chi vociferava di un possibile esonero di Eddie Jones in caso di una ulteriore sconfitta. Il prato melmoso del Newlands e l’altitudine ridotta del Capo hanno invece aiutato l’Inghilterra ad abbassare il ritmo dell’incontro e a portare a casa una partita dove il Sudafrica, rimaneggiato, non è sembrato lo stesso delle precedenti due settimane. Danny Cipriani ha potuto dare il colpo di grazia con una giocata a metà tra genio e disperazione, assistito dalle gambe sempre più impressionanti di un Johnny May che è stato probabilmente il migliore per la sua nazionale durante un tour che ha visto più ombre che luci.
La vittoria di Cape Town è stata un brodino caldo per la gestione Jones: un toccasana e un palliativo per i problemi che l’Inghilterra deve risolvere. Lorenzo Calamai e Michele Cassano li hanno indagati da vicino, cercando di capire quali sono davvero le ragioni per cui l’Inghilterra è passata, nella stagione appena conclusa, dalle classiche stelle alle altrettanto conosciute stalle.
Lorenzo Calamai: Un anno fa, proprio in questi giorni, il pianeta ovale assisteva alla ventunesima vittoria su ventidue partite disputate dall’Inghilterra. La squadra di Eddie Jones, fermata solo dall’Irlanda in quel di Dublino, aveva fatto registrare la conquista di due Sei Nazioni consecutivi, di cui il primo con Grande Slam, una percentuale di vittorie del 100% nel 2016, e sembrava una treno blindato lanciato nella sua corsa a divenire il primo sfidante degli All Blacks per l’egemonia su Ovalia. Una situazione che era poi proseguita nel novembre del 2017, per arrestarsi bruscamente quest’anno al Sei Nazioni. La squadra d’acciaio, dalla grande forza caratteriale e dalle infinite risorse nella profondità e nella qualità della sua rosa, sembra improvvisamente essersi dissolta e oggi siamo a commentare la prima vittoria dopo sei sconfitte consecutive (cinque se si contano solo i test ufficiali) e un allenatore che ha rischiati di sentire la propria sedia iniziare a traballare sotto le scosse di una feroce aggressione mediatica. Michele, tu che sei un po’ l’eddiejonesista della redazione di On Rugby: che cosa è successo?
Michele Cassano: L’effetto Eddie Jones è sparito: la motivazione dei giocatori dopo il disastro della RWC 2015 e il cambio allenatore avevano dato una scossa da cui ripartire, ora l’effetto di questo è svanito e anzi, la stampa è in pressione sull’allenatore e sui giocatori. Fra le motivazioni principali c’è da aggiungere che tanti giocatori dell’Inghilterra vengono dal Tour dei British & Irish Lions della scorsa estate, e quindi giocatori come Itoje giocano ininterrottamente da tre anni. E’ impensabile che certe situazioni non incidano sui risultati della squadra.
Lorenzo Calamai: Quello che stupisce è la differenza di prestazione di alcuni giocatori nel momento in cui vestono la maglia del club di Premiership rispetto a quando mettono quella bianca dell’Inghilterra. Maro Itoje, che hai citato, ne è sicuramente un esempio. Questo però ci porta ad esplorare due argomenti diversi. Il primo è collegato a quanto dici: i tanti inglesi che erano con i Lions hanno avuto semplicemente qualche settimana in più di stop all’inizio della stagione, ma poi i club li hanno inseriti nuovamente nelle loro rose appena la stagione ha cominciato ad entrare nel vivo. Non si sono potuti risparmiare fra una Premiership che fino alle ultime giornate è stata oggetto di una lotta serrata e senza quartiere e una Champions Cup come al solito durissima. In secondo luogo, però, forse ci sono anche dei limiti tattici nell’utilizzo da parte di Jones delle proprie risorse: non è solo stanchezza mentale e fisica, ma anche una involuzione tecnica quella di questa edizione estiva dell’Inghilterra.
Michele Cassano: Eddie Jones si è giocato come alibi il fatto di avere circa 25 giocatori indisponibili. E’ una cifra esagerata, ma io credo che oggettivamene abbiano avuto davvero una marea di infortunati.
Lorenzo Calamai: Oltretutto Jones è un maniaco dell’intensità in allenamento e anche a fine stagione chiede molto ai suoi giocatori. Per di più organizzando il ritiro a livello del mare quando poi si gioca in altitudine.
Michele Cassano: Mettiamoci anche che in alcuni ruoli sono più corti di quanto si pensi: vedasi i numeri 8 e 9, quando mancano i titolari designati Vunipola e Youngs si fa fatica a trovare un’alternativa. Secondo me, inoltre, molti giocatori sono stati abituati a fare solo i finishers, come dice Jones, e, se chiamati a giocare per più del solito, vanno in difficoltà.
Lorenzo Calamai: Beh, durante il Sei Nazioni si è parlato molto dell’assenza di Billy Vunipola come di un fattore decisivo per le scarse fortune inglesi. Durante questa finestra internazionale però il numero otto non ha dato prova di attraversare un momento di forma particolarmente valido. La sua prima alternativa, Nathan Hughes, peraltro spesso coinvolto come prima scelta nei momenti di assenza di Vunipola e quindi non solamente un finisher, non ha certo ben figurato nel terzo test. Il miglior giocatore con la maglia numero 8 della Premiership è senza ombra di dubbio Sam Simmonds degli Exeter Chiefs, che però predica un rugby dinamico e di movimento che non si incastra con le necessità di Jones, che vuole evidentemente un terza centro che sia prima di tutto un ball carrier efficace e sappia portare avanti la squadra.
Michele Cassano: Qui si arriva ad un punto fondamentale, e che è stato anche oggetto di critica nei confronti di Jones, cioè una logica nella selezione dei giocatori non sempre giustificata: giocano sempre gli stessi, vengono date poche chance alle alternative a disposizione e in questo frangente l’Inghilterra è l’unica nazionale dell’emisfero nord a non aver ampliato la propria rosa in maniera convincente.
Lorenzo Calamai: Sì, lo dichiaro: non sono solo un fan di Simmonds, ma anche di Dan Robson, Luke Cowan-Dickie e di tutti quei giocatori che hanno impressionato in Premiership e non hanno avuto una opportunità in nazionale per la cocciutaggine di Jones nel voler dimostrare che la sua formula è quella vincente.
Michele Cassano: Ci sono due aspetti ulteriori da considerare: rispetto a due anni fa, gli avversari di alto livello hanno iniziato a prendere le misure agli inglesi, specialmente nei secondi tempi. E una squadra che era abituata sempre a vincere, di colpo si scopre battibile e va in difficoltà psicologica.
Lorenzo Calamai: In questo tour in Sudafrica una delle lacune maggiormente lampanti è stata la mancanza di disciplina. Un fatto che potrebbe avere molto a che fare con il fattore psicologico, ma anche con una certa atmosfera che si respira nello spogliatoio. Ha provato a sottolinearlo da fuori Andy Goode, che oggi scrive per Rugbypass, ricevendo una curiosa risposta da Danny Cipriani in persona.
Michele Cassano: La domanda adesso però è: cosa dobbiamo aspettarci dall’Inghilterra da qui alla World Cup? Qual è il vero valore di questa squadra? E’ quella del 2016 o quella del 2018? Io credo che ci siano anche dei problemi strutturali, al di là del momento di forma fisico e mentale.
Lorenzo Calamai: Sì, è anche la mia opinione. L’Inghilterra può risolvere i problemi di performance tutelando i propri atleti da un minutaggio esagerato, andando quindi a incidere ad esempio sulla incapacità di vincere la collisione dimostrata in Sudafrica dal pack in maglia bianca. Però alcuni nodi rimangono: l’Inghilterra è spesso inferiore all’avversario sui punti d’incontro, uno degli snodi cruciali del rugby moderno. Con Curry e Underhill una pezza è stata messa, ma serve che anche gli altri giocatori esaltino le proprie competenze in quest’area tecnica. Inoltre c’è un problema di ball carrying: Jones non può pensare che nel rugby di oggi si possa dividere verticalmente il gioco fra un pacchetto di giganti con il compito di portare avanti il pallone e una linea arretrata fatta solo di “cervelli”. Servono giocatori polivalenti sia fra i trequarti che fra gli avanti per mettere davvero in difficoltà tutti gli avversari.
Michele Cassano: Il potenziale e il bacino di atleti dal quale l’Inghilterra può pescare ha pochi eguali. Sono convinto che possano essere meglio di così. La vittoria di Cape Town dà adesso a Jones e compagnia quello spazio per rifiatare e pianificare il futuro necessario per tornare alla carica e presentarsi alla grande alla Coppa del Mondo. Ma qualcosa deve cambiare: il Sudafrica ha dimostrato che arroccarsi sulle proprie posizioni per dimostrare qualcosa al pubblico, tifosi o media che siano, non paga.
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