Intervista al giovane numero 10 friulano, alla prima stagione nel Benetton. Il punto sul suo ultimo anno e il suo stile di gioco
Quando ad Antonio Rizzi chiediamo come stia procedendo la prima settimana di preparazione con il Benetton, l’entusiasmo per l’inizio della nuova esperienza è palpabile. “Per me è stata molto divertente. Stiamo facendo preparazione atletica, ci dedichiamo al fitness sia in campo sia in palestra, cosa che magari in Eccellenza non si fa molto. Facciamo tanto lavoro di gambe e diversi esercizi molto difficili… E infatti son distrutto”.
A 20 anni, il mediano d’apertura friulano è uno dei giovani più interessanti nel panorama nazionale. Non a caso, il club veneto lo ha messo sotto contratto dopo un solo anno trascorso nel massimo campionato italiano al Petrarca, una rarità nel sistema nostrano dove chi esce dall’Accademia trascorre generalmente un biennio in Eccellenza prima di passare in teoria al livello successivo (gli unici a fare eccezione, al momento, sono stati Giovanni Licata e Marco Riccioni).
“E’ stata una difficoltà piacevole – continua il numero 10 a proposito dell’impatto con i nuovi metodi di lavoro trevigiani – Sia Ian (McKinley) sia Ale Zanni me l’avevano un po’ anticipato, ma sei in mezzo a giocatori che ti danno una mano. Sono giovane, ho tanta voglia di fare”.
Dopo aver fatto tutta la trafila nelle nazionali giovanili, l’Accademia e l’esperienza a Padova, per Rizzi ora è il momento di salire di un altro gradino. “L’obiettivo personale per quest’anno è entrare in pieno nella squadra. Spero di riuscire a giocare più minuti possibili, anche se davanti ho due bei giocatori come Allan e McKinley”.
“Non so se hai visto il Mondiale…”
Il classe ’98, però, è ben cosciente di dover cambiare marcia rispetto alle ultime uscite con la nazionale. “Spero di riuscire a ritrovare il livello di gioco che serve questo grande campionato. Non so se hai visto il Mondiale…”. Lo abbiamo visto, in effetti, e per Rizzi non è certamente il miglior ricordo della sua giovane carriera viste le prestazioni sottotono come non mai nell’ultimo biennio.
“Nel finale di campionato non son riuscito ad avere grande continuità, penso per problemi miei, quindi sono arrivato al Mondiale non tanto consapevole delle mie capacità. Dopo un Sei Nazioni in cui avevo giocato anche piuttosto bene non sono riuscito a ripetermi, e mi dispiace. Gli allenatori avevano fiducia in me, ma le cose che provavo a fare non mi riuscivano. C’è stato un po’ un blackout”.
Il blackout del friulano: due mete inglesi, due restart consecutivi calciati direttamente fuori dal campo.
Nell’analisi del suo momento negativo durante il torneo, Rizzi è sincero con se stesso. “Ho provato a semplificare il mio gioco, ma nel ruolo di apertura hai tante responsabilità. Non sono un ragazzo che sente tanto la pressione, perché ho la mia famiglia che mi dà una mano a tirarmi su, ma anche le cose semplici non mi riuscivano”.
Tutta l’ultima stagione, in ogni caso, non è stata facile a suo dire (“Non ho avuto la fortuna di giocare tanti minuti e quindi mi ero messo un po’ in discussione. Quando un atleta non riesce ad esprimersi non ha verifiche, e può avere qualche dubbio”), ma il capitolo sembra ormai archiviato. “Finito il Mondiale, ho tirato una riga: non voglio fare di nuovo così male, sono carico per la nuova stagione, come lo sono sempre stato”.
Meglio attaccare
Tralasciando il torneo iridato, il Rizzi visto finora sembra essere un mediano d’apertura con caratteristiche ben precise: le migliori qualità del friulano emergono quando può attaccare palla in mano la difesa e giocare sulla linea del vantaggio, magari con linee strette, mentre perde ancora un po’ in efficacia quando distribuisce lontano dalla linea.
“Mi rivedo un po’ in queste cose. Sono un giocatore a cui piace stare sempre a ridosso della linea di difesa. Sono fortunato in questo senso, perché nel Pro14 vedo tante aperture che attaccano molto, anche perché il rischio di giocare profondo è che la difesa ti venga a prendere nel tuo campo. Poi ovviamente ho tanti margini di miglioramento, ci sono tante cose che voglio migliorare: il passaggio, il piede… Quello che serviva in Eccellenza, ora non basterà più”.
Comunque Rizzi, quando attacca la linea, sa giocare così nello stretto.
Dalla pressione psicologica a quella delle difese, a cui un mediano d’apertura al giorno d’oggi deve prestare necessariamente attenzione se non vuole ritrovarsi nel mirino dei Courtney Lawes di turno. Ma con squadre sempre più asfissianti nel togliere spazio al numero 10, quanto spazio c’è per ragionare sulla linea del vantaggio, ovvero l’habitat naturale dell’intervistato?
“Personalmente, sapendo di non avere una presenza fisica così importante, quando decido di attaccare studio chi ho davanti, quindi se ho giocatori lenti e posso aggirarli… Evito di andare addosso anche a chi è più grosso. Ci deve essere sempre un po’ di studio sotto, anche in campo, quando vedi con la coda dell’occhio un mezzo buco. E’ il rugby che piace a me”. Tornando al suo possibile adattamento con il Pro14, Rizzi continua dicendo che “da quello che ho visto attaccare è sempre la scelta migliore, perché così ti ritrovi già sulla linea del vantaggio”.
Il passaggio dall’Eccellenza
Quando si parla del percorso italiano per i giovani, è difficile non interrogarsi sul ruolo che l’Eccellenza riveste nel completare la formazione dei ragazzi usciti dalle Accademie. E’ una terra di passaggio indispensabile? Oppure rischia di diventare un pantano? “Penso sia molto utile, perché ti aiuta ad entrare nel rugby vero. Finché sei in Accademia ti alleni tanto fuori dalla partita, ma quando giocavamo eravamo molto tranquilli, avevi molto tempo per fare le scelte”.
“Se l’Accademia è stata utile per il livello fisico e l’impostazione mentale data dagli allenatori, l’Eccellenza aiuta perché il gioco si velocizza e i giocatori che hai contro sono molto esperti. Non è un rugby velocissimo – continua Rizzi sul massimo torneo italiano – Si pensa più a utilizzare il fisico magari. Il gioco è più semplice da leggere.
Complice anche il feeling creatosi con i compagni di squadra durante la trafila nelle giovanili azzurre, Rizzi ammette che “sembrerà strano da dire, ma in Under 20 mi sentivo di più a casa mia. Giocavo insieme a ragazzi con cui ho passato un anno intero in Accademia e le nazionali, per cui conoscevo perfettamente tutti. C’era un’intesa speciale. Conoscevamo bene i compagni al nostro fianco: se uno preferiva un certo tipo di pallone, se preferiva attaccare o difendere…”.
Per com’è andata l’esperienza padovana, il 20enne non nasconde qualche piccolo rimpianto. “Avevo cominciato bene, nel senso che stavo iniziando a trovarmi bene con la squadra, perché non è mai facile ripartire da zero con compagni che non conosci. Poi purtroppo ho avuto un infortunio di un mese e mezzo, e appena ho recuperato sono ripartito per il Sei Nazioni. La cosa mi ha un po’ più bloccato, e non sono riuscito a calarmi al meglio nella realtà padovana”.
Fuori dal campo
Il rapporto con il rugby fuori dal campo, invece, non potrebbe essere più completo e viscerale. “Lo guardo fin da bambino. Ho iniziato a guardarlo con i Mondiali del 2007 in Francia, e da allora l’ho sempre seguito. Guardo molto il Super Rugby, perché è uno dei più spettacolari, ma anche Premiership, Top 14 e Celtic. Una passione che condivido con mio padre, anche lui le guarda tutte”.
Gli esempi dell’adolescenza? “Un po’ scontati: Dan Carter e Jonny Wilkinson, soprattutto Carter. Un giocatore infinito”. Dei mediani d’apertura in auge al giorno d’oggi, invece, Rizzi dice di aver preso spunto soprattutto da un numero 10. “Ho analizzato Farrell per quanto riguarda i piazzati, perché mi ha sempre affascinato il modo in cui piazzava. Ho provato un po’ a imitarlo guardando i video su YouTube dall’Under 14, e mi son sempre trovato molto bene. Poi man mano mi sono un po’ evoluto”.
Daniele Pansardi
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