La carriera del capo allenatore dei Crusaders ha un tasso di successo impressionante, e il futuro sembra serbargliene altro. Lui, però, vuole rimanere a Christchurch
“Questo sono io. Questo è il modo in cui ho giocato e allenato. I ragazzi sembra che abbiano compreso e sposato il mio approccio, così com’è. Se sto fingendo lo sapranno, continuerò semplicemente a essere me stesso.”
Così parlava Scott Robertson nel momento in cui, due anni fa, i Crusaders decisero di affidargli la panchina dopo l’era Blackadder, durata otto stagioni. A quanto pare, già allora il tradizionale balletto di breakdance in occasione delle vittorie, ripetuto al termine del Super Rugby 2017 e 2018, era un rito conosciuto e affermato.
Lo avevano visto i tifosi di tutto il mondo in Italia, nel 2015, al mondiale under 20. Scott Robertson allenava i Baby Blacks di Akira Ioane, Jack Goodhue, George Bridge, che conquistarono quell’edizione del torneo iridato giovanile nella finale contro l’Inghilterra.
Lo avevano conosciuto ancor prima in patria, quando Robertson aveva guidato alla conquista del campionato domestico delle province la squadra di Canterbury, nel 2013 e nel 2015. La prima delle due era stata la sua prima esperienza da head coach, dopo un apprendistato durato sei anni, ovvero dal momento del suo ritiro dalle scene. In pratica, da allenatore, dov’è arrivato ha sempre vinto al primo colpo, e spesso si è anche saputo ripetere.
Non un giocatore di seconda fascia Scott Robertson, forse non tutti lo ricordano. Terza linea dal placcaggio perentorio, ha accumulato 22 caps con gli All Blacks e vissuto esperienze da giocatore in scenari tanto diversi fai suoi Crusaders come la Francia, con Perpignan, e il Giappone, dove ha giocato l’ultima stagione della sua carriera con i Ricoh Black Rams nel 2007.
Dopo il ritiro, dietro consiglio del suo mentore Rob Penney, ha passato un intero anno a studiare. Ha frequentato i club del rugby league australiano e le franchigie di football americano negli Stati Uniti. Si è formato in maniera eterodossa, rubando da altre discipline e da tutte le realtà con cui è venuto in contatto. Si è specializzato in particolar modo nell’allenare la difesa, fase che ha allenato nello specifico nei suoi anni da apprendista di Penney a Canterbury. Nel frattempo, ha fatto allungare la fulva chioma.
Oggi il flanker noto come Razor, rasoio, è uno degli allenatori più in vista del momento, ed a soli 43 anni si parla di lui per le panchine del Galles, ma anche degli All Blacks. L’immediato futuro, però, sembra essere ancora con i Crusaders: “Ho sempre voluto stare qui – ha detto Robertson al New Zealand Herald prima della finale di sabato 4 agosto – Ci sarà una valutazione dopo la fine della stagione, com’è previsto dal contratto, e l’anno prossimo incominceremo a parlare di quanto a lungo vorrebbero che io rimanessi.”
“Una cosa che ho imparato è che bisogna essere pazienti. Il tempo è qualcosa di cui beneficiare come allenatori. Non sono assolutamente di fretta.”
“C’è sempre da imparare. Penso che la cosa più importante sia comprendere sé stessi e il proprio gruppo di tecnici e di giocatori. Devi costruire il rispetto. La conservazione è altrettanto importante del reclutamento di nuovi giocatori perché ti dà consistenza. E’ qualcosa di cui faccio un vanto: le persone stanno bene in questo ambiente e vogliono rimanerci.”
La costruzione di un ambiente e di una cultura di squadra positivi e vincenti sono due dei risultati maggiormente in vista del grande lavoro fatto da Scott Robertson con i Crusaders, una franchigia già naturalmente pronta ad accogliere questo tipo di atteggiamento, proveniente da una persona cresciuta e formatasi all’interno.
L’idea, adesso, è quella di fare tripletta. Un’impresa riuscita in precedenza solo agli stessi rossoneri, fra il 1998 e il 2000 (indovinate un po’ chi c’era in terza linea?). L’obiettivo ambizioso è quello di affermare la propria legacy, come dicono gli anglosassoni, per passare alla storia come la migliore squadra di Super Rugby di sempre.
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