Come “All or Nothing: New Zealand All Blacks” cambia l’interpretazione della squadra numero 1 al mondo e del suo tecnico
Questa settimana Steve Hansen, head coach degli All Blacks, ha rilasciato una dichiarazione che ha lasciato perplessi i più, e suscitato qualche sorriso sarcastico dalle parti di Sydney, dove i neozelandesi scenderanno in campo il prossimo 18 agosto per inaugurare il Rugby Championship.
“Abbiamo perso contro l’Australia l’ultima volta che li abbiamo affrontati, quindi non c’è dubbio che avranno un sacco di fiducia in sé stessi e sono degni di essere considerati favoriti” ha detto il tecnico di fronte al gruppo di giornalisti kiwi, radunati per apprendere la rosa dei convocati in vista della sfida che dà inizio al torneo.
Nonostante sia effettivamente vero che l’Australia è stata una delle due squadre capaci di battere gli All Blacks nel 2017, oltre ai British & Irish Lions, è anche vero che lo ha fatto nel terzo match valido per la Bledisloe Cup, a quel punto già in mano ai tuttineri, e oramai al di fuori del Rugby Championship, dominato in lungo e in largo dalla squadra di Hansen.
Sappiamo tutti che gli All Blacks sono i legittimi favoriti per la vittoria sabato 18 e per tutti i weekend successivi, nonché in pole position per la conquista del trofeo finale. Lo sa anche Steve Hansen, per certo, e lo sanno i suoi giocatori. A che gioco sta giocando, allora, l’allenatore della squadra numero uno al mondo?
Steve Hansen or nothing
Per capire meglio la comunicazione verso l’esterno, e anche molte altre sfaccettature dell’organizzazione e della vita quotidiana della nazionale neozelandese, ci arriva in soccorso All or Nothing: New Zealand All Blacks.
Si tratta di una docu-serie in sei puntate da 45 minuti circa, uscita lo scorso mese di giugno per la piattaforma streaming di Amazon, Prime Video. All or Nothing è un format di documentario sportivo che nel recente passato aveva già raccontato squadre e atleti della NFL, la principale lega statunitense di football americano, e che di recente ha puntato i riflettori anche sul Manchester City di calcio.
Nel concentrarsi sugli All Blacks, le telecamere hanno seguito allenamenti, partite, riunioni tecniche e alcuni aspetti della vita privata di giocatori e tecnici della squadra in maniera intensiva per ben quattro mesi. Si tratta di qualcosa di mai visto prima: solitamente l’entourage dei tuttineri non gradisce mostrare niente di relativo al proprio ambiente. E’ quindi un’operazione di estremo interesse, che consente di imparare tanto sull’universo che ruota attorno alla maglia nera con la felce argentata.
La docu-serie incomincia nel giugno del 2017. Gli All Blacks sono la squadra numero uno al mondo ma devono affrontare i British & Irish Lions, avversari di primissima categoria. Lo devono fare inoltre in un momento di transizione: dall’ultima Rugby World Cup hanno cambiato molto, alcuni monumenti come McCaw e Carter hanno lasciato la nazionale, e ci sono alcuni volti nuovi nella rosa. Nei sei episodi, si attraversano le vicissitudini legate quindi alla serie contro i Lions per poi passare allo scorso Rugby Championship.
Ha una voce monotona e passa la maggior parte del tempo a guardare gli altri in cagnesco. Nella cabina dei tecnici in tribuna, quando è inquadrato dalla telecamera, mantiene un aplomb imperturbabile, ma difficilmente dal suo volto traspare approvazione. Raro che le sue conferenze stampa siano noiose, anche quando dice ovvietà, ma per comprendere a pieno i suoi argomenti, si deve guardare all’intero insieme della sua comunicazione.
Anche quando esagera, anche quando sembra giocare il consumato gioco della guerra di parole alla vigilia di un incontro importante, Steve Hansen non mente mai. La sua è una sincera, tagliente e diretta onestà con pochi compromessi, forse il solo atteggiamento possibile per mantenere il rispetto e la fiducia nei confronti dei suoi giocatori.
“Siamo esattamente come gli altri. Facciamo solo un lavoro che finisce in televisione più spesso degli altri” si descrive in un passaggio di All or Nothing Steve Hansen, dando la cifra del suo essere chiaro, schietto e quadrato rispetto al proprio ruolo. Quando si tratta di telefonare personalmente a tutti i giocatori rimasti fuori dalle convocazioni, lui che sembra non solo per ruolo ma anche per vocazione personale schivo e introverso, parla senza mezzi termini di dover empatizzare con chi sta all’altro capo della cornetta mentre gli spiega per filo e per segno le motivazioni di una esclusione.
Possiamo quindi credergli quando quest’anno ha chiuso le sue convocazioni alle insistenti voci che gli chiedevano di dare qualche chance ai tanti giocatori che si sono messi in mostra nel Super Rugby: “Quest’anno il nostro obiettivo è lavorare sul nostro gioco e sulle combinazioni fra i nostri giocatori.”
La sincerità di Hansen fa sempre riferimento ad un sistema di valori consolidato e condiviso che sta alla base dell’intera cultura di squadra degli All Blacks. C’è spazio per sapere che c’è altro nella vita oltre il rugby, c’è la volontà di mantenere alti standard, c’è l’apertura mentale ad ascoltare i contributi di tutti anche se in una logica gerarchica, c’è l’attaccamento alla maglia e il desiderio di giocare per la squadra.
Facciamo un esempio: quest’anno ha avuto modo di giocare con la maglia numero 13 della Nuova Zelanda Jack Goodhue, giovane dei Crusaders dal futuro promettente, ma che nelle ultime stagioni aveva dovuto affrontare brutti infortuni, che ne avevano minato l’avvio di carriera.
“Ha dovuto essere paziente. Probabilmente non è un tipo paziente: sembra avere sempre fretta di andare da qualche parte, che è la cosa che mi piace di lui. Ma aver dovuto imparare ad essere paziente è stata una gran cosa per lui” ha detto Steve Hansen in giugno.
“E’ un ragazzo che ha dovuto essere paziente. E questo mi piace di lui, che lo è stato. Sarebbe potuto andare via ma ha avuto la personalità di dire: voglio scrivere una storia con quella maglia.” Queste ultime sono invece le parole che Hansen utilizza per Ryan Crotty nel primo episodio di All or Nothing. Una somiglianza davvero importante, per dare grande valore alla pazienza di ragazzi che sono stati fuori davvero a lungo, ma che in nome della maglia nera hanno atteso il loro turno e sono stati premiati per il loro lavoro.
Esigenza, gerarchia, pressione
Durante la serie, capita di vedere alcuni momenti per così dire scolastici. Hansen si rivolge ai propri giocatori dalla cattedra, mentre questi se ne stanno seduti con un quaderno e una penna. Quando l’allenatore chiede chi abbia fatto i compiti a casa (nella fattispecie, rivisto durante la settimana la partita giocata dall’Argentina, prossima avversaria) alzano la mano, nel gelo generale, soltanto in tre. “Volete essere dei grandi All Blacks o degli All Blacks qualsiasi?” gracchia in un altro momento il tecnico.
È un piccolo compendio di che cosa c’è in gioco: gli All Blacks sono la squadra migliore al mondo, ma per rimanere sul trono dove siedono oramai da anni devono tendere sempre e comunque al massimo dell’eccellenza possibile, che in alcuni casi coincide con la voglia di battere sé stessi, consci che il solo talento non basterà, ma va abbinato all’abnegazione nel lavoro e alla preparazione. Per questo vediamo uno Steve Hansen spesso brutale, incontentabile al limite del paranoico rispetto alle prestazioni della sua squadra, ma allo stesso tempo anche lucido e sicuro nel conoscere la strada da percorrere per arrivare all’obiettivo.
Un comportamento, quello dell’head coach, influenzato anche da una cultura mediatica locale che esercita sulla nazionale neozelandese una pressione davvero poderosa e un’irrefrenabile curiosità, tanto che Steve Hansen e consorte sono costretti a montare dei teloni attorno alla loro abitazione per mantenere un livello accettabile di privacy. “Altrimenti ci troveremo gente che parcheggia qui e sbircia in casa. Steve è un allenatore molto importante, quindi spesso non usciamo affatto, perché… Tutti lo guardano. E per associazione guardano anche noi” dice la moglie Natasha.
I tifosi e i commentatori si aspettano sempre un dominio spietato da parte dei loro beniamini, e quando questo non arriva parte immediatamente il blame game, la corsa ad affibbiare le responsabilità di un eventuale vittoria risicata, o di un quarto di partita non giocato al 100%.
Da All or Nothing emerge inoltre un punto fondamentale della cultura interna degli All Blacks: niente è concesso, tutto è guadagnato. Nei primi episodi vediamo l’improvviso emergere di Rieko Ioane, da interessante prospetto dei Blues a stella internazionale in poche settimane. Eppure il suo non è un esperimento, né una concessione dello staff tecnico. Basta vedere quanta fatica faccia per ottenere la propria opportunità un giocatore come Lima Sopoaga, anche quando oramai il Rugby Championship è nettamente tra le grinfie dei neozelandesi.
Gli All Blacks hanno una solida struttura gerarchica, dove quello che si ottiene viene guadagnato con tanto lavoro. Ed è per questo, quindi, che probabilmente non vedremo Richie Mo’unga partire titolare in nessuna delle prime giornate del prossimo Rugby Championship. Ci dimentichiamo troppo in fretta che lo scorso anno Hansen ha designato Barrett come uno dei leader di questa squadra, a partire dalla sua promozione a vice-capitano nella partita contro l’Argentina.
La pressione esterna esercitata dall’ambiente neozelandese si incontra con quella interna, dove lo staff pone obiettivi individuali e collettivi di altissimo livello, unico viatico per mantenersi spanne avanti a tutte le contendenti. L’esigenza di Hansen si esprime in ogni discorso collettivo, in ogni debriefing post-partita, in ogni punizione individuale, come le 20 flessioni comminate a Damian McKenzie per aver gettato al vento due passaggi di fila in allenamento (ed infatti vediamo quanto anche un fenomeno come lui fatichi a trovare continuità da titolare, come diretta conseguenza di alcune imperfezioni da limare).
Diventano allora chiare anche le parole recenti di Hansen. “L’Australia è legittimamente la favorita” è un avvertimento ai propri giocatori, più che un riconoscimento rivolto all’avversario. È un proseguimento di un atteggiamento dell’allenatore capo degli All Blacks che con All or Nothing impariamo a decodificare. È l’appello del comandante alla truppa a rimanere sull’attenti, un avvertimento a raggiungere e superare il livello al quale il gruppo ha posto la propria asticella, per poter continuare a vincere, dominare ed essere gli indiscussi numeri uno del rugby mondiale.
Lorenzo Calamai
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