Rugby Championship: la prima giornata in cinque punti

Seconde linee in grande spolvero, la classe di le Roux e l’energia di de Klerk: un faro puntato sul meglio del turno di debutto del torneo australe

ph. REUTERS/David Gray

La prima giornata del Rugby Championship è andata, passata senza troppi sussulti né sorprese rispetto alle previsioni della vigilia. La partita del mattino fra Australia e Nuova Zelanda ha offerto un primo tempo avaro di spettacolo, ma denso di aspettative, viste le difficoltà in cui sono incappati gli All Blacks. Complici delle improbe circostanze, dei Wallabies agguerriti che però si sono poi sciolti troppo presto, soverchiati dalla classica marea nera della ripresa. A Durban, nel pomeriggio, partita divertente fra Sudafrica e Argentina. Anche qui gli Springboks, favoriti al calcio d’inizio, hanno preso il largo nella seconda frazione di gioco, dopo aver concluso la prima in svantaggio. Fra analisi del risultato, prestazioni brillanti e boomerang australiani, cinque spunti di riflessione sull’inizio del torneo.

Fondamenta

E’ una vecchia storia, quella rinsaldata da Australia e Nuova Zelanda: chi vince la battaglia là davanti, porta a casa la partita. E così è stato anche ieri. Più degli errori di cui gli All Blacks hanno approfittato, più della fatica e della consunzione che ha costretto i Wallabies a sventolare bandiera bianca nel corso del secondo tempo, ciò che ha tagliato le gambe agli uomini di Michael Cheika è stata la sopraffazione subita dagli otto avanti avversari nelle fasi statiche.

Dopo una prima mezz’ora giocata da padrona del terreno, l’Australia ha cominciato a cedere terreno a degli All Blacks fin lì irriconoscibili per i tanti errori commessi con il pallone in mano. Il recupero dei neozelandesi è partito dalla mischia chiusa, dove Moody, Taylor e Franks costringono Robertson, Polota-Nau e Kepu a concedere ben tre calci di punizione solo nel primo tempo. L’ultimo arriva con una vera e propria arata di tutti e otto gli uomini in nero: una di quelle affermazioni perentorie che bacano la testa degli avversari, mettendo in chiaro chi comanda. E infatti di lì a poco arriva la fiammata che rimette in partita la Nuova Zelanda, con la meta di Aaron Smith.

Poi c’è la rimessa laterale, altro capitolo assai doloroso per l’Australia: secondo i dati di ESPN, i Wallabies sono riusciti ad aggiudicarsi appena 5 dei propri 13 lanci, una vera e propria disfatta. Retallick e Whitelock hanno dominato la touche avversaria uscendo molto più rapidamente dai blocchi.

L’Australia ha cercato di forzare la mano: schieramenti rapidi e lanci veloci, con l’obiettivo di non lasciare il tempo agli avversari di prepararsi. La ragione potrebbe essere, ad esempio, il fatto che l’europeo Tatafu Polota-Nau sia arrivato ad allenarsi con la squadra solamente da poco tempo, e forse qualche ruggine nei confronti degli schemi della sua nazionale, vista la mancata partecipazione agli internazionali di giugno.

Quale che sia la motivazione della scelta, ha funzionato come un boomerang (qual’è il colmo per un australiano?): gli All Blacks non si sono mai fatti prendere di sorpresa e hanno dimostrato di avere semplicemente degli alzatori e dei saltatori migliori degli avversari in termini di rapidità ed efficacia di esecuzione.

Senza pallone non si può giocare, e senza giocare non si possono marcare punti. Da qui la mancata capitalizzazione della maggior brillantezza della prima frazione da parte degli australiani, e il loro successivo crollo nel secondo tempo, costretti ad attaccare solamente da palloni di recupero.

Titani

Brodie Retallick ha rubato la scena al compagno di reparto Sam Whitelock, che festeggiava le 100 presenze con la maglia degli All Blacks. Al ritorno in nazionale dopo essere stato assente a giugno, il dinoccolato gigante dei Chiefs ha offerto una prestazione a tutto tondo, coronata anche da una marcatura personale (con il delittuoso contributo di un Will Genia colpevole di aver già tirato i remi in barca).

I numeri della sua partita: 11 cariche per 63 metri fatti, 1 break, 2 difensori battuti, 10 passaggi (!) e 7 placcaggi. Fra gli highlights della sua partita il pallone fagocitato a Genia dopo un pericoloso buco dei Wallabies. Sostanzialmente onnipresente, Retallick ha fatto impallidire le recenti prestazioni di Scott Barrett, che pure in giugno e nel Super Rugby aveva assolutamente legittimato il suo status di titolare della maglia numero 4.

Qualche ora più tardi, un altro gigante della seconda linea faceva il suo ritorno in campo dopo un periodo di assenza per infortunio: Eben Etzebeth ha giganteggiato nella partita contro l’Argentina, mettendo in mostra la durezza di tutti i suoi spigoli. Nientemeno che 80 minuti di gioco per il seconda linea degli Stormers, di ritorno da otto mesi di stop.

L’ex capitano del Sudafrica ha voluto celebrare il ritorno in campo effettuando il maggior numero di cariche verso la difesa (14) di tutti e 46 i giocatori scesi in campo.

La coperta di Cheika

E’ corta. Con i migliori giocatori disponibili, l’Australia è una squadra in grado di impensierire davvero chiunque, e nonostante le assenze ha dimostrato il proprio valore nei primi 30 minuti dell’incontro di Sydney.

Michael Cheika, però, ha un problema di profondità. Innanzitutto la ricerca del numero 6 complementare a Hooper e Pocock non sembra essere ancora finita. Lukhan Tui è stato colui su cui è ricaduta la scelta nelle ultime occasioni, data soprattutto la sua esuberanza fisica, ma il terza linea ha offerto una prestazione non molto incoraggiante contro gli All Blacks. Cercato più volte come ball carrier, non ha saputo vincere praticamente mai l’impatto uno contro uno, e ha qualche responsabilità sulla prima meta neozelandese, quando Ben Smith gli è sgusciato via dalle grinfie.

In prima linea l’assenza di Scott Sio ha evidenziato le carenze a livello di piloni della squadra australiana, con Robertson distrutto dall’avversario diretto Franks e Kepu costretto a rimanere in campo più a lungo di quanto avrebbe dovuto essere il caso, per sospetta mancanza di alternative.

Il problema si acuisce quando si pensa alla spina dorsale della squadra: il tallonatore titolare è l’esperto Polota-Nau? Tolu Latu è pronto ad assumersi qualche responsabilità in più? E Brandon Paenga-Amosa visto a giugno dov’è finito? Non c’è chiarezza su chi sia al momento il prescelto, perché nessuno sembra essere degno di fiducia incondizionata. In quanto ai numeri 8, 9 e 10 i rincalzi per questi ruoli latitano.

In terza linea Pete Samu può prendere il posto di uno fra Pocock e Hooper, ma dietro di lui ci sono soprattutto molti dubbi.

Genia e Phipps sono una coppia di mediani di mischia collaudata, con il secondo qualche spanna sotto il primo, ma soprattutto se uno dei due dovesse infortunarsi che si fa?

Infine, il caso più delicato: fra i numeri dieci utilizzati da Cheika dalla fine della scorsa coppa del mondo ad oggi, dal punto di vista del minutaggio, dietro Bernard Foley c’è Quade Cooper, quello che non vuole più nessuno. Tolto Foley, che non può permettersi una giornata no, probabilmente le alternative attuali sono Reece Hodge e Kurtley Beale, ma si tratta abbastanza palesemente di soluzioni emergenziali.

Ampliando lo sguardo all’orizzonte della ormai imminente, in termini di cicli rugbistici, World Cup, l’Australia sembra essere un gradino troppo indietro nella soluzione di questi interrogativi di profondità della rosa, rispetto alle ambizioni che una squadra dal tasso di talento così elevato giustamente si pone.

Faf e Willie al comando

Uno astuto e iperattivo, l’altro geniale e flemmatico anche quando corre al massimo della velocità. Sono i due direttori d’orchestra della linea arretrata sudafricana, capaci di fare la differenza con le loro giocate in apertura di secondo tempo a Durban, dove il Sudafrica si è imposto sull’Argentina: ecco Faf de Klerk e Willie le Roux.

Da quando il compatto mediano di mischia (172 centimetri per 80 chili, all’incirca) si è riguadagnato la maglia della nazionale dopo un anno ai Sale Sharks, nella Premiership inglese, sembra un giocatore diverso. Innanzitutto è la fame: la voglia di rivalsa che anima un giocatore che trova in quella fiamma l’ardore necessario per rivaleggiare contro i grandi e i grossi. Poi c’è la fiducia in sé stesso, acquisita proprio con l’emigrazione verso i lidi europei, che hanno comportato la maturazione di più di un talento dell’emisfero australe. E infine c’è l’intelligenza di un giocatore che è un vero e proprio playmaker per questa squadra sudafricana, più di quanto non lo sia il suo compagno di regia Pollard, con il quale risulta comunque complementare.

Faf de Klerk, con la sua incapacità di stare fermo, con il suo rimbalzare da una parte all’altra del campo, è la dinamo che anima gli Springboks di Rassie Erasmus. Willie le Roux, invece, è la lampadina che si accende: le sue giocate trasudano classe ad ogni giro di giostra. Come de Klerk, anche le Roux ha cambiato applicazione in campo da quando ha trovato casa a Coventry, con la maglia degli Wasps.

In questa edizione del Sudafrica, il numero 15 è il deus ex machina della linea arretrata. Si propone spesso come secondo uomo in piedi dopo Pollard, quando c’è da distribuire il gioco o inventare qualcosa, inserendosi fra due centri più deputati alla battaglia frontale come Esterhuizen (soprattutto) e Am. Come in occasione della seconda meta sudafricana, la prima delle due di Aphiwe Dyantyi. Palla che da Pollard va a le Roux, che alza la testa con fare calcistico e illumina con un calcio perfetto la zona scoperta della difesa argentina.

E’ sempre un contrattacco iniziato da le Roux quello che poi permette al socio in affari de Klerk di esplorare nuovamente la profondità per la doppietta di Dyantyi in apertura di secondo tempo. Il mediano di mischia completa poi la sua opera con l’assist per la prima meta di Mapimpi, il quale poi replica poco dopo su una fase nata proprio dal dialogo de Klerk-le Roux, che questa volta riceve da primo uomo in piedi. Al settantesimo, infine, per Faf de Klerk c’è anche la gloria della meta personale.

Una lunga strada

A chi pensava che Mario Ledesma possedesse una specie di bacchetta magica la risposta è servita: nella palla ovale non esistono scorciatoie. Ecco perché un’Argentina che comunque mostra segni di incoraggiante ripresa non può semplicemente competere contro un Sudafrica più forte.

E’ stato chiaro a tutti che pur con grande abnegazione e qualche lampo, l’Argentina abbia terminato la prima frazione di gioco a Durban in vantaggio più per demeriti degli avversari che per meriti propri. Si prospetta un Rugby Championship davvero difficile per i Pumas, che dovranno essere bravi a tenere duro, con la consapevolezza che dopo questo agro cammino, li aspetta la possibilità di togliersi qualche soddisfazione in più a novembre in Europa.

La squadra sudamericana deve risolvere soprattutto due problemi: mischia e touche. Da troppo tempo assistiamo a una involuzione dell’Argentina in questi due fondamentali, cardini del loro gioco di un tempo. Una delle motivazioni dell’allontanamento di Daniel Hourcade è stata proprio questa: il gioco totale e innovativo portato dal tucumano aveva allontanato l’attenzione dai punti di forza tradizionali dell’Argentina. Ora Ledesma è chiamato a ritrovarli in fretta.

I Pumas hanno sofferto contro il Sudafrica in entrambe le fasi ordinate, perdendo oltre alle mischie chiuse anche 5 rimesse laterali su 14, più di un terzo di quelle disponibili.

Trovare una soluzione è necessario e urgente: la prima pezza può essere messa facendo crollare definitivamente la diga delle convocazioni dei giocatori europei (dopo Figallo, Ledesma ha chiamato anche il tallonatore Bosch per rimediare all’infortunio di Montoya), poi però dev’essere l’intero movimento a intervenire per tornare a produrre giocatori forti in certi fondamentali.

Lorenzo Calamai

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