Il sistema di conference del Super Rugby non è al servizio del Rugby Championship

Australia e Sudafrica faticano a chiudere il gap con gli All Blacks anche perché le loro franchigie giocano poco contro le neozelandesi

ph. REUTERS/David Gray

Dalle prime due giornate di Rugby Championship è emersa una sentenza chiara e inequivocabile: gli All Blacks sono alcune spanne al di sopra delle altre tre concorrenti. In particolar modo Australia e Sudafrica, rispetto a qualche anno fa, hanno perso terreno nei confronti della squadra neozelandese.

Per le due partecipanti storiche al Championship, ex Tri Nations, c’entra sicuramente un ricambio generazionale che non le ha ancora portate ad un livello paragonabile a quello del passato e l’avere a che fare con una squadra, quella kiwi, che sta toccando vette formidabili, raggiunte in precedenza da poche altre squadre nella storia del gioco.

Al di là delle vicissitudini contingenti al momento attuale, c’è una concausa di cui si è parlato spesso durante la stagione, anche se in altri termini: la struttura del Super Rugby non aiuta lo sviluppo delle franchigie australiane e sudafricane e in maniera indiretta, quindi, quello di Wallabies e Springboks.

Tante voci, anche da parte neozelandese, si sono levate per opporsi al sistema di conference, provando a sostenere l’idea di ritornare ad un unico girone all’italiana. Per squadre come Chiefs, Blues e Hurricanes, la struttura del campionato è sfavorevole nel breve termine: è chiaro che attualmente vengono penalizzate nelle qualificazioni e nell’abbinamento ai playoff dati i posti garantiti per le conference australiana e sudafricana.

Per Jaguares e Sunwolves il Super Rugby continua a funzionare come una eccellente palestra: arrivando da un livello inferiore siamo in una fase di crescita per i due club che sono poi, in misura differente, in grado di riportare tale crescita fra le mura domestiche e trasmetterla alla squadra nazionale.

Le franchigie australiane e sudafricane finiscono invece per giocare la maggior parte delle partite fra di loro, abbattendo certo i costi di trasporto e le difficoltà logistiche, ma al tempo stesso diventando limitanti dal punto di vista della crescita nel medio periodo. Prendiamo la squadra che più di ogni altra ha dominato lo scenario del Super Rugby negli ultimi tre anni: i Lions.

In questa stagione i Lions hanno perso 5 partite su 5 contro le squadre neozelandesi: tutte quelle giocate durante la stagione regolare più la finale di Super Rugby. Nel 2017 hanno battuto gli Hurricanes in semifinale senza però mai incontrare nessuna neozelandese durante la stagione. Nel 2016 hanno perso 3 partite su 5 durante la stagione regolare contro le franchigie kiwi, per poi Crusaders e Highlanders ai playoff prima della sconfitta in finale con gli Hurricanes. Un bilancio totale, quindi, 5 vittorie su 14 partite giocate, e il dato più interessante è proprio che in tre anni hanno disputato solo quattordici incontri contro le avversarie migliori.

I Lions hanno raggiunto un appiattimento della loro curva di crescita e miglioramento a causa del facile dominio oramai acquisito sulla propria conference. E l’unica competizione che hanno la ricevono da squadre all’interno del proprio girone, in modo tale che non c’è un ulteriore miglioramento reciproco: da dove allora la selezione nazionale sudafricana dovrebbe attingere il materiale umano pronto a chiudere il gap nei confronti dei primi della classe?

E’ un esempio che naturalmente si adatta anche alla situazione australiana, che per quanto sia più complessa e intricata per una serie di problemi strutturali all’interno dell’intero movimento, risente anche di quanto sottolineato: i Waratahs sono la squadra più brillante del lotto aussie, ma i loro confronti con le squadre al di là del mare di Tasman sono ridotti, e giocando la maggior parte delle partite al’interno, la crescita dei giocatori è limitata.

Non solo lo sviluppo dei protagonisti è bloccato, ma anche l’abitudine a giocare ad altissimi ritmi. Le franchigie neozelandesi del Super Rugby giocano tutte ad un ritmo superiore a quelle degli altri paesi, e questo si riflette sulle sfide fra All Blacks e altri. Non è un caso che i Wallabies abbiano sempre tenuto botta nei primi quaranta minuti ed abbiano poi ceduto di schianto nella ripresa.

Accorciare il gap è un obiettivo necessario sia per il Super Rugby quanto per il Rugby Championship, un torneo che risente molto dal punto di vista dell’appeal dal fatto che già dal primo minuto di gioco sappiamo già chi alzerà il trofeo alla fine dei giochi. Ed è oltretutto un obiettivo a cui tutto il mondo ovale dovrebbe ambire, perché la competizione, lo sappiamo, migliora sempre le cose sotto tutti i punti di vista: tecnico, commerciale, di crescita. Chiudere con il sistema delle conference nel Super Rugby potrebbe essere un primo passo in questa direzione.

Lorenzo Calamai

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