È stato il weekend di Rugby Championship più esaltante nella storia del torneo, che forse ne aveva un gran bisogno
È difficile dire se la giornata di sabato avrà ripercussioni sulle gerarchie del rugby mondiale nel breve termine. Con tutta probabilità non più di tanto, ma non è realmente quello il nocciolo della questione: a prescindere dalle sue conseguenze, il quarto turno del Rugby Championship 2018 ci ricorda che questo sport è una scienza esatta ma fino a un certo punto, e che crearsi delle aspettative elevate non sempre è indice di mitomania. Due lezioni che si possono applicare sia a Nuova Zelanda-Sudafrica sia a Australia-Argentina, a ben guardare.
È stato un sabato da ricordare anche per gli appassionati di numeri e statistiche, perché le sfide di Wellington e Gold Coast hanno riservato alcuni aggiornamenti molto interessanti:
- il Sudafrica ha raggiunto la doppia cifra di Test Match vinti in terra neozelandese, dove non trionfava dal 2009;
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i 36 punti messi a referto dagli Springboks rappresentano un record negativo per gli All Blacks, che non avevano mai subito così tanto in casa. Il record precedente apparteneva sempre ai sudafricani con 35, ma in quel caso (era il 1997) gli All Blacks vinsero 55-35;
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per la prima volta, l’Argentina vince in Oceania da quando è entrata nel Rugby Championship. Gli altri successi erano arrivati in casa o in Sudafrica;
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per i Pumas è stata la seconda vittoria nella storia in Australia. La prima risaliva al 1983, un 3-18 maturato a Brisbane: 35 anni dopo, gli albiceleste ci sono riusciti di nuovo.
Un sabato forse irripetibile, ma sicuramente inedito: da quando il torneo è a quattro squadre, è la prima volta in cui due squadre in trasferta – e nessuna delle due si chiama Nuova Zelanda – vincono nella stessa giornata. Manna dal cielo per il Rugby Championship, che generalmente suscita interesse solo per capire quanti punti di media infliggeranno gli All Blacks a tutti gli altri. Ce n’era proprio bisogno.
Sfruttare le occasioni
In entrambe le partite, probabilmente, i demeriti degli sconfitti sono uguali o superiori ai meriti della squadre vincitrici. Cogliere la palla al balzo nelle giornate più difficili degli All Blacks, per esempio, resta un esercizio tremendamente complicato: se va bene, vinci di due segnando 36 punti, placcando 196 volte, tenendo palla il 19% del tempo, occupando il territorio avversario il 13 e sperando che Beauden Barrett abbia una serata storta dalla piazzola (vero, Lions?). Se va male, ovvero non ti presenti pronto all’appuntamento, becchi 38 punti come l’Australia alla prima giornata.
L’impresa degli Springboks è titanica anche per questi motivi. Riuscire a fermare una corazzata che, in giornata teoricamente storta, segna comunque sei mete e produce una mole di gioco enorme può capitare forse una volta nella vita, a meno che la vittoria di Wellington non faccia improvvisamente cambiare rotta a tutto il Sudafrica cancellando i difetti emersi finora (improbabile, per inciso).
Non si possono ignorare, in ogni caso, la straordinaria abnegazione di una squadra con limiti strutturali e tecnici anche piuttosto evidenti; il coraggio e la contemponranea compostezza nel voler prendere sempre il toro per le corna dopo ogni colpo ricevuto, come nel caso della seconda – bellissima – meta di Dyantyi.
Ma anche la leadership di Faf de Klerk, caparbio e a tratti incosciente nell’attaccare ogni punto d’incontro per disturbare il dirimpettaio di turno; la caparbietà du Toit, Mostert e Whiteley, rispettivamente a quota 24, 24 e 20 placcaggi completati; Siya Kolisi, per le ingenerose criitche arrivate nelle ultime settimane; la visione e la naturalezza con cui Elton Jantjies ha costruito la quinta e ultima meta, senza combinare alcun danno – una notizia – nei minuti successivi. Rassie Erasmus, che in tribuna ha vissuto l’incontro come una finale mondiale, dovrà ora canalizzare tutta l’energia positiva nel percorso verso il Giappone, cercando di evitare il più possibile che il Sudafrica torni ad essere quello masochistico degli ultimi mesi. C’è speranza.
In confronto, per l’Argentina è sembrata quasi una passeggiata, se non fosse stato per la clamorosa occasione da meta divorata da Israel Folau a pochi metri dalla linea di meta quando il cronometro era già rosso. Dopo la meta di Haylett-Petty al 55′, i Pumas hanno in effetti controllato al meglio dei Wallabies realmente irriconoscibili anche solo rispetto a quelli dei 20 minuti iniziali del match.
I Pumas di Mario Ledesma sanno usare il fioretto come ci avevano abituato negli ultimi anni, ma dimostrano di saper abbinare anche l’aggressività e la verve agonistica di uno sciabolatore, cosa che era un po’ mancata nella fase conclusiva e calante della gestione Hourcade (sulla pazienza di uno spadista, invece, bisogna ancora lavorarci su).
Contro una difesa facilmente esponibile come quella dei Wallabies, la tecnica e la velocità dei Pumas sono andate a nozze: le ali Moyano e Delguy hanno seminato il panico a ripetizione nel primo tempo, coadiuvate dal solito sapiente lavoro di Sanchez e dei centri e dalla forza e dall’atletismo delle terze linee. Senza dimenticare il piede superbo di Emiliano Boffelli, meno appariscente rispetto agli esordi di un anno fa ma altrettanto prezioso da estremo per Ledesma. Nemmeno una difesa dal 74% di placcaggi riusciti, una mischia ancora balbettante e la poca lucidità nel gestire il posssesso nella ripresa hanno potuto evitare la gioia del successo agli albiceleste. L’occasione era davvero troppo allettante.
Daniele Pansardi
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