E’ finito il Rugby Championship, evviva il Rugby Championship

L’edizione 2018 è partita in sordina, ma ha finito per regalarci sorprese e colpi di scena

ph. Reuters

Anche l’edizione 2018 del Rugby Championship è ormai storia. Con un’ultima giornata fatta di rocambolesche rimonte, vittorie in trasferta e tante mete segnate, è andata in archivio un torneo sorprendentemente equilibrato, con rapporti di forza fluidi che si sono evoluti nel corso delle otto settimane in cui si è svolto.

L’hanno vinto ovviamente gli All Blacks, e non ci sono novità, ma la loro riaccesa rivalità con il Sudafrica, che li ha dominati sostanzialmente per 150 minuti, ha riacceso le luci sul gap che esiste fra i numeri uno al mondo e le dirette inseguitrici.

L’Australia ha affrontato un torneo aspettando per due mesi che si accendesse quell’interruttore che invece non ha mai finito per funzionare. Ha portato a casa due pesanti sconfitte con i neozelandesi, strappato la vittoria in casa al Sudafrica facendo ancora credere di essere la seconda forza del torneo, ha perso in casa con l’Argentina e si è inventata una clamorosa rimonta nell’ultimo turno: una scheggia impazzita nello scenario ovale internazionale che sarà curioso rivedere a novembre.

L’Argentina è passata in poche settimane da essere una squadra che aveva toccato il proprio massimo sviluppo e che stava involvendo, a rischiare di vincere il 50% delle partite del proprio Rugby Championship, un risultato impensabile al kick-off. La cura Mario Ledesma ha portato subito i suoi frutti, e sembra che adesso i Pumas non possano che continuare a crescere, grazie anche ad alcuni giocatori ritrovati.

Infine il Sudafrica, vera e propria sorpresa del torneo. La squadra di Rassie Erasmus è in costante evoluzione. Ad ogni partita vediamo aggiungere un pezzo in più nella costruzione della squadra. Manca ancora qualche tassello importante per considerare gli Springboks la superpotenza di un tempo, quella pre-2015 per intendersi, ma la strada è quella giusta.

 

Evviva il Rugby Championship

L’edizione di quest’anno del torneo per nazionali dell’emisfero australe era partita in sordina, con diverse bocche storte a dire che “tanto vincono sempre gli stessi”, “i risultati delle partite sono scontati” e “vuoi mettere con l’atmosfera del Sei Nazioni?”.

No, nessuno vuole paragonare Sei Nazioni e Rugby Championship, due tornei che per storia e genesi sono ovviamente molto diversi. Chi, però, non abbia avuto i brividi durante la haka neozelandese di ieri, praticamente inghiottita dal tifo del Northern Transvaal, forse ha semplicemente acceso il televisore un poco in ritardo.

Questo Rugby Championship ci ha dato l’opportunità di vedere la crescita esponenziale del Sudafrica, la caduta degli All Blacks davanti al proprio pubblico, l’Argentina andare a vincere a Gold Coast e tante altre emozioni che si sono condensate soprattutto nella seconda parte del torneo, decisamente più imprevedibile e divertente di quanto preventivato e, bisogna dirlo, anche di quanto offerto negli ultimi anni. Se questo è il Rugby Championship, evviva il Rugby Championship.

La rivincita di Foley

Nella derelitta Australia di Michael Cheika, a un certo punto non c’è stato più posto per Bernard Foley. Il numero 10 dei Wallabies, titolare praticamente fisso dalla RWC 2015 ad oggi, con un monopolio finanche eccessivo, era stato escluso per spostare Kurtley Beale più vicino alla fonte del gioco, e inserire un Matt Toomua molto determinato a riprendersi una maglia in nazionale.

Non ha funzionato particolarmente bene, forse anche perché Beale è stata una delle delusioni di questo torneo: è quello che con il proprio talento può accendere la luce nella linea arretrata dei Wallabies, e invece l’ha spesso spenta. Cheika però non ha mai avuto il coraggio di rinunciarvi, magari inserendo una coppia di metronomi come Foley e Toomua a dividersi i compiti di playmaking.

Nella vittoria rimediata con la pazza partita di Salta, Bernard Foley ha avuto la sua rivincita. Dopo un primo tempo tutto sommato difficile, come per tutto il resto della compagnia, l’apertura si è riscattata con un secondo tempo in cui ha guidato la squadra alla rimonta con una spietata lucidità. Il primo a crederci, il primo a incitare i compagni: forse non il più appariscente o frizzante dei numeri 10, ma un giocatore di livello assoluto e un leader in maglia verde e oro.

Rollerball

“Player welfare is paramount to us” si sente spesso ripetere in questi giorni. La salute dei giocatori è per noi di importanza capitale, ripetono in mille modi le istituzioni del pianeta ovale, da World Rugby a Sanzaar, passando per la Premiership e le federazioni nazionali. Poi, assistiamo a giornate come quella di ieri: a Pretoria, Angus Gardner ha pilatescamente deciso di lavarsene le mani di quello che accadeva nei punti d’incontro.

Abbiamo visto pulizie in tuffo, entrate laterali a profusione, inclusa una di Scott Barrett a spalla chiusa con il solo intento di far male all’avversario misteriosamente punita solo con un calcio di punizione. Soprattutto una sovrabbondanza di neck roll, pulizie del raggruppamento con un braccio a girare il collo.

 


L’unico vero modo per tutelare la salute dei giocatori, mettendo fine a questi comportamenti, è punirli in modo tale che non sia più conveniente metterli in pratica. Gardner ha fallito sotto questo punto di vista, ma anche la decisione di World Rugby di limitare l’intervento del TMO è un passo indietro in questo senso. Rende sicuramente più fluida e godibile la partita per lo spettatore, ma allora il player welfare dove va a finire?

Anche in Argentina-Australia si sono visti casi discutibili, culminati nel fallo di Tolu Latu nei minuti conclusivi che gli è valso appena un giallo, quando si tratta di un comportamento e di un atto totalmente da censurare (colpo al volto ad avversario a terra, pallone lontano). Occhio che il rugby non finisca per diventare come il rollerball, lo sport protagonista dell’omonimo film del 1975 con James Caan, dove nessuno dei giocatori riesce a prolungare la propria carriera oltre i tre anni, a causa dell’estrema violenza del gioco, che però viene cavalcato fintanto che intrattiene la gente. Ah già: la pellicola è ambientata in un distopico 2018.

Il XV del Torneo

15 Willie le Roux 14 Ben Smith 13 Matias Moroni 12 Damian de Allende 11 Aphiwe Dyantyi 10 Nicolas Sanchez 9 Faf de Klerk 8 David Pocock 7 Sam Cane 6 Pablo Matera 5 Samuel Whitelock 4 Eben Etzebeth 3 Frans Malherbe 2 Agustin Creevy 1 Karl Tu’inukuafe

Menzioni speciali: Dane Haylett-Petty (Australia), Malcolm Marx (Sudafrica), Rieko Ioane (Nuova Zelanda), Owen Franks (Nuova Zelanda)

 

Lorenzo Calamai

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