Un giocatore diverso da tutti gli altri, che fa parte di una minoranza rugbistica che prova a resistere
Nel giorno in cui ha annunciato la volontà di intraprendere una nuova strada, riproponiamo un vecchio elogio ad un giocatore che ha lasciato un segno speciale sull’ultima decade ovale in Italia.
Se fosse un film, rientrerebbe nella categoria dei cult. Facile. Se fosse un album, il genere si avvicinerebbe al progressive rock. Se fosse un movimento culturale, il barocco. Se fosse un rugbista, sarebbe Marco Barbini. Un giocatore non banale, virtuoso e per questo iconico, estroso ma mai fine a se stesso. Per il pubblico italiano è ormai diventato un feticcio, uno di quelli a cui ci si affeziona con una tale facilità da perdonargli anche eventuali errori di troppo. Con Barbini, in ogni caso, non ce n’è mai stato granché bisogno.
Spesso ci si riferisce a lui come ad un giocatore sfortunato o trattato in maniera “ingiusta” dal movimento italiano, per tutta una serie di motivi. Per non averlo portato subito nel Pro12, ad esempio. Barbini era stato eletto miglior giocatore del campionato italiano 2010/2011, il primo dell’era celtica, ma è stato portato al livello superiore solo nell’estate del 2014, ovvero all’inizio del biennio più triste e travagliato del Benetton nel Pro12. Un tempismo quantomai pessimo, anche se per fortuna con il tempo attorno al giocatore è stato costruito un contesto favorevole.
O per non aver avuto abbastanza chance in nazionale, tra l’altro. Barbini ha collezionato appena 2 cap e 27 minuti in due partite del Sei Nazioni 2015 contro Irlanda e Francia, in un periodo interessato da diversi infortuni in nazionale e particolarmente negativo (più degli altri periodi, s’intende). Poi il nulla: per la Coppa del Mondo non è stato considerato, idem per il Sei Nazioni 2016. Con l’arrivo di Conor O’Shea, complice anche i postumi di un infortunio a fine 2015/2016 e l’operazione alla spalla subita nella seconda parte del 2016/2017, le porte sembrano essersi chiuse definitivamente.
Il CT irlandese non è mai parso interessato alle qualità del flanker ex Petrarca e Mogliano, pur convocando e facendo giocare spesso uno con caratteristiche non troppo dissimili da lui come Maxime Mbandà. Ciò nonostante, Barbini resta un rugbista speciale. Anzi, un rugbista diverso. Da chi? Da tutti i suoi colleghi di reparto del rugby nell’anno 2018.
Al Benetton ci sono sei terze linee oltre a lui: Barbieri, Lazzaroni, Manu, Negri e Steyn, tutti giocatori che sulla bilancia fanno segnare almeno 110kg, e Pettinelli, che a 22 anni ne fa segnare 108. Barbini, invece, sforava di poco il quintale oggi come quattro anni fa, e si sta trascinando ancora oggi l’etichetta di flanker forse “troppo leggero” per l’alto livello. A furia di ripeterlo qualcuno ci avrà creduto per davvero, con tutta probabilità.
Per resistere alla selezione naturale di uno sport sempre più orientato verso i fisici statuari ed esuberanti, Barbini è semplicemente rimasto se stesso. Ha continuato ad eludere piuttosto che a caricare, a fintare e non ad andare per forza dritto per dritto, ad uscire dal placcaggio dell’avversario invece di fare a testate, dimostrando di saper sopravvivere anche “con quel fisico lì” e di poter essere anche un esempio da seguire, in un certo senso.
“In attacco vorrei avere altre capacità, ad esempio vorrei essere il Barbini della situazione, giocatore con una visione di gioco e degli angoli di corsa che pochi in Italia possiedono”. Le parole, risalenti ad un anno fa, sono di Marco Lazzaroni, uno che in effetti in fase offensiva balbetta e non poco. Pur non avendo la ruvidità e la resistenza del friulano o di Steyn – senza scomodare altri nomi più illustri -, Barbini possiede un QI rugbistico e la capacità di leggere in anticipo le situazioni in campo che si ritrovano in pochissimi altri professionisti di Benetton o Zebre.
E poi quanti altri giocatori riescono a fare offload come questo? O come questo?
Per non parlare di quest’altro.
La sua abilità nel riciclare il pallone è ancor più straordinaria se si pensa alla struttura fisica di Barbini. Mentre uno come Ratuva Tavuyara può sfruttare la sua stazza per restare in piedi subito dopo un placcaggio, liberando le braccia per l’offload, Barbini è pressoché impossibilitato a seguire una strada del genere non avendo un upper body come quello del figiano. L’italiano è quindi “costretto” a cercare continuamente soluzioni complicate e fantasiose – da altezze improbabili o quasi pancia a terra – per riciclare il pallone, il suo marchio di fabbrica fin dai primi anni di carriera e principale tratto distintivo in un’Eccellenza molto più chiusa nel gioco di quella attuale.
Di conservativo, invece, Barbini non ha proprio nulla. Non a caso, con la rinnovata proposta di gioco del Benetton – molto verticale e basata anche su letture letture individuali – le sue prestazioni stanno impressionando più del solito. Non è più uno-dei-pochi a pensare rugby in un certo modo, ma è inserito dentro un sistema che lo stimola, lo favorisce e lo comprende come forse non gli è mai capitato fin qui. Insomma, stiamo vedendo il miglior Marco Barbini della carriera? Può darsi. Ed è forse un peccato che il suo ultimo mese non gli sia valso nemmeno una convocazione per il raduno in Nazionale.
Di un giocatore cult, tuttavia, potrebbe non essere importante solo l’esaltazione collettiva per le prestazioni di oggi, ma soprattutto l’eredità che potrebbe lasciare in futuro. Abbiamo bisogno di più Marco Barbini: per dimostrare a questo mondo ovale che un’altra formula, alternativa e allo stesso tempo complementare ai giocatori iper fisici e vogliosi di rullare solo il prossimo avversario, esiste; per istruire i rugbisti del domani ad utilizzare il proprio cervello per districarsi in campo, prima che i muscoli; per essere creativi e coraggiosi, così da avere una soluzione alle situazioni più complicate da risolvere.
In attesa di vederne altri, magari più fortunati e considerati, godiamoci il Marco Barbini del presente. E tutti i giocatori che fanno parte di quella sua stessa minoranza rugbistica.
Daniele Pansardi
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