Come si vive il rugby in Giappone: l’inimitabile rapporto tra club e azienda

Nella Top League a farla da padrone è la rivalità tra grandi imprese. Si gioca anche (e soprattutto) per sostenere la reputazione dell’azienda

ph. Phil Noble/Action Images

Quello che leggerete tra poco è il terzo di tre articoli dedicati al Giappone, al suo massimo campionato nazionale e alla sua cultura così lontana e per certi versi impenetrabile agli occhi degli occidentali. È il nostro modo di accompagnarvi passo dopo passo alla Coppa del Mondo 2019, la prima oltre i classici confini di Ovalia. Il nostro trittico si conclude con una panoramica sul singolare rapporto tra club e azienda nel rugby nipponico, e su altri particolari della cultura locale che potrebbero farvi alzare più volte un sopracciglio.

– La prima parte 

– La seconda parte

Un tempo esclusiva di una manciata di nazioni, il rugby sta rapidamente diventando un vero e proprio gioco globale. Il recente rapido miglioramento della squadra e del movimento giapponese ne è un ottimo esempio, così come il fatto che la prossima edizione della Coppa del Mondo sarà la prima nel continente asiatico. Prima del torneo del prossimo anno, quindi, cogliamo l’occasione per capire qualcosa di più sul Giappone e sul suo rugby.

Una delle più grandi differenze tra il sistema rugbistico giapponese e gli altri è la provenienza delle ricchezze, che non arrivano attraverso i diritti televisivi, gli spettatori paganti o affaristi milionari d’oltremare che decidono di investire qui. I club sono essenzialmente team di lavoro, finanziati come progetti di prestigio da molte tra le più importanti realtà dell’economia giapponese, alle quali interessa più l’antica rivalità aziendale e il fatto di primeggiare sulle altre aziende, piuttosto che pensare agli introiti.

I campioni in carica per esempio sono una branca di Suntory, la società più importante nel settore delle bevande. Panasonic ha una sua squadra, Così come Honda, Mitsubishi, Yamaha, Ricoh e Toshiba. È importante notare che in Giappone i giocatori vengono trattati come impiegati regolari della compagnia e, per la maggior parte, è proprio quello che sono.

Quando i giocatori stranieri vengono ingaggiati, si uniscono al club tanto quanto alla società, e in quanto parte della società devono sottostare a tutte le regole (spesso piuttosto rigide) di quest’ultima.

“È stato solo quando sono arrivato che ho scoperto che NTT aveva una politica aziendale che vietava di andare al lavoro con un proprio mezzo di trasporto. Quindi per recarmi agli allenamenti dovevo per forza andare in bicicletta fino alla stazione, prendere un treno e poi andare all’allenamento, tutto mentre trascinavo la mia sacca in giro per la città. Finito l’allenamento, dovevo rifare tutto alla rovescia fino a casa. Non c’è stato alcun modo di poter acquistare un auto. Il mio procuratore mi ha detto che avrei dovuto semplicemente fare come mi era stato detto”, ha raccontato Craig Wing, australiano ma equiparato nella nazionale giapponese, in un’intervista di qualche tempo fa.

In Giappone c’è una quota minima di giocatori professionisti per ogni squadra. Il resto inizia la giornata da impiegato d’ufficio, facendo il proprio lavoro in azienda, generalmente per 4/5 ore, prima di raggiungere il campo per allenarsi con i professionisti.

“Con una barriera linguistica a tratti insormontabile, diversi contesti culturali e una struttura salariale, tra professionisti e amatori, fortemente ineguale, si potrebbe pensare che non ci sia un grande affiatamento in spogliatoio, ma vi assicuro che non è assolutamente così”, ha detto Wing.

“I compagni di squadra sono molto rispettosi in Giappone. Non c’è la classica atmosfera spavalda e a tratti molesta che abbiamo negli spogliatoi inglesi o australiani. È tutto molto diverso da come è in Australia o in Inghilterra, dove quando vai al pub i ragazzi sono sempre molto casinisti, trovi persone che ti saltano addosso, ragazzi che inseguono le ragazze e tutto il resto. In Giappone si tratta più di stare in compagnia l’uno dell’altro e di uscire insieme come una squadra veramente affiatata. C’è un grande senso di famiglia e di appartenenza”, ha continuato Wing.

“In una tipica serata tra compagni si va a cena in uno di quei locali a buffet dove si ha un’ora di tempo per mangiare e bere a volontà. Spesso si va ad uno dei tantissimi karaoke disseminati per le città, vera droga dei giapponesi, anche se di solito ci si concentra più sul bere che sul cantare, oltre che su giochi che spesso non riesco a capire!”.

Nonostante la vita da giocatore professionista sia estremamente allettante, e gli stipendi considerevolmente più alti rispetto a quelli dei giocatori/dipendenti, molti giocatori stranieri hanno rivelato che nove giapponesi su dieci non cambierebbero mai la loro condizione con quella di un giocatore a tempo pieno. Bisogna considerare, infatti, che in questo strano sistema giapponese i giocatori/impiegati hanno il loro lavoro regolare e ben pagato con una grande compagnia per il resto della loro vita, cosa che nella cultura giapponese corrisponde ad un grandissimo onore ed è la massima ambizione per molti giovani universitari e le loro famiglie.

Devono solo fare quattro ore di lavoro al giorno (durante la stagione, mentre in off season lavorano come tutti gli altri colleghi), per poi andare ad allenarsi e godersi la vita da giocatore, viaggiando per il Giappone per giocare al massimo livello possibile nel Paese.

Straniero avvisato

Dal punto di vista prettamente del gioco invece, una evidente differenza, dovuta a cause di forza maggiore dettate dalla genetica, sta nel fatto che il rugby giapponese non è caratterizzato dalla presenza dei grandi avanti in stile armadio che possiamo vedere nel resto del panorama rugbistico che conta.

Si possono apprezzare pacchetti di mischia molto dinamici e con un work rate a volte impressionante, a maggior ragione dall’entrata dei Sunwolves nel Super Rugby (i quali hanno tra l’altro recentemente siglato un contratto con l’All Black Rene Ranger) che ha dato la possibilità ai migliori giocatori della Top League di misurarsi al massimo livello d’intensità possibile. Il gioco degli avanti giapponesi è inoltre composto da una grande dose di aggressività, anche se non capita praticamente mai di assistere a scambi di opinioni troppo coloriti.

La linea arretrata è solitamente agile e tecnicamente molto valida, dà il meglio di sé nelle fasi di riciclo del pallone e contrattacco e si vedono spesso giocate a tutto campo veramente pregevoli ed efficaci (di tutto ciò ne sa qualcosa il Sudafrica).

Non è facile, in ogni caso, essere un giocatore straniero in Giappone. Sebbene qui i giocatori di rugby non siano costantemente sotto la lente di ingrandimento dei media come invece accade in Europa o nell’emisfero Sud, gli stranieri, che sono pagati profumatamente e sono sottoposti ad uno stress fisico e mentale inferiore rispetto ad altre competizioni, non possono comunque allontanarsi troppo dalla retta via e darsi alla pazza gioia. Portano sulle loro spalle, così come tutti i compagni di squadra, la reputazione della loro società, e in Giappone questo è un onere pesante con il quale non conviene scherzare.

Qualche anno fa, dopo che un giocatore di una squadra delle categorie inferiori, era stato sorpreso a guidare con un tasso di alcool superiore al consentito (che è giusto ricordare che si tratta dello 0,0%, valevole anche per i ciclisti), l’azienda proprietaria della squadra non si è limitata a punire il giocatore, ritirarlo dalla squadra oppure licenziarlo, ma ha liquidato l’intero programma di rugby sciogliendo la squadra.

Un altro esempio del peso che si porta rappresentando una società giapponese, anche da giocatore di rugby, ce lo dà la vicenda legata a George Smith di un anno fa. A Tokyo, nella notte di capodanno, Smith ha deciso di tornare a casa – visto lo stato di ebbrezza – in taxi. Fin qui, tutto bene.

Il problema è sorto quando al momento di pagare Smith ha deciso di andarsene senza farlo, e succesivamente di rispondere alle proteste del tassista colpendolo in volto. Il risultato è stato l’immediata rescissione del contratto e l’allontanamento dal Paese, e per sua fortuna il tassista ha deciso di non sporgere denuncia.

La ormai ex squadra di Smith, i Sungoliath, che dopo essersi profusa in scuse pubbliche di ogni genere ha poi conquistato il titolo, per via di questo incidente ha rifiutato di festeggiare il traguardo raggiunto evitando qualsiasi celebrazione, compreso il giro trionfale sul bus scoperto in programma a Tokyo.

Comportarsi con dignità e rispettosamente, sostenere la reputazione dell’azienda è essenziale in Giappone. Non ci sono seconde o terze possibilità. Se fai qualcosa di sbagliato, se hai problemi con la polizia o se finisci sul giornale per qualche motivo non esattamente lodevole, la tua avventura nipponica è certamente finita.

“È completamente diverso da qualsiasi altra esperienza di vita e di gioco tu abbia mai provato.Vieni pagato molto bene, hai una quantità enorme di tempo libero con la tua famiglia ed è rinfrescante, sia mentalmente sia fisicamente – ha detto sempre Craig Wing – Il tuo corpo può rigenerarsi e puoi sperimentare con il tuo rugby senza un’eccessiva pressione. La cultura può sembrare troppo rigida a volte, ma in fin dei conti è semplice: basta non fare cose stupide. Sono partito con l’idea di rimanere per due anni e ci sono rimasto per sei, è quello che succede a tutti quelli che vanno in Giappone.

Roberto Neri

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