Dalla sfida contro gli All Blacks l’Italia non può portare via nulla di concreto. Un risultato e una prestazione che non fanno testo
Organizzare delle sfide tra Italia e All Blacks, di questi tempi, significa barattare la credibilità della nazionale con l’appariscenza, la voglia di sentirsi grandi a tutti i costi e l’esibizionismo. La nazionale maggiore è il perno attorno a cui viene fatto ruotare il movimento nostrano e la sua reputazione è già ai minimi termini dopo le ultime ingloriose stagioni: svilirla ulteriormente davanti a 53.000 persone non sembra ragionevole, anche perché nemmeno il famoso motto “si gioca contro le più forti per imparare” può giustificare un Test Match contro la Nuova Zelanda.
Cosa si può pretendere di “imparare”, del resto, da una squadra che gioca ad una velocità impressionante, aggredisce i punti d’incontro come belve affamate e possiede un set di abilità e giocate da far impallidire? Qualunque cosa si possa estrapolare dai neozelandesi, non si potrebbe comunque implementare nell’Italia, vista la differenza tecnica, tattica e di mentalità: sarebbe sciocco e anche molto presuntuoso solo pensarlo.
Il concetto di “imparare dalle più forti”, che fino ad un decennio fa poteva rappresentare un alibi solido per le sconfitte più dure, ha ormai perso di significato, soprattutto se si parla di Test Match.
Per “imparare” l’Italia ha pur sempre il Sei Nazioni, del resto. E visto che da lì non si può uscire, perché non concentrare il resto delle risorse sull’affrontare con maggiore continuità Fiji, Giappone, Georgia eccetera eccetera eccetera? Ogni tanto l’Argentina, più raramente l’Australia o il Sudafrica, e poi solo Tier 2. La solita cantilena, insomma. I Test Match per testarsi, appunto, il Sei Nazioni per cercare di misurare i progressi o i regressi compiuti nelle finestre internazionali, magari cercando di strappare ogni tanto una vittoria. Meno introiti, più senso logico: ma l’ago della bilancia, naturalmente, pende più sui primi.
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Passato e futuro
La conseguenza è che ci ritroviamo a commentare un 3-66, dopo vent’anni di Sei Nazioni e più o meno altrettanti di professionismo. Nel 2016 finì 10-68, nel 2012 42-10 con un ottimo primo tempo, nel 2009 a San Siro la sconfitta fu solo per 6-20. Sfidare gli All Blacks con una certa regolarità, insomma, non è poi solo positivo per lo spettacolo, l’haka e i giocatori più forti del mondo, ma anche per capire quanto sia peggiorata la nazionale e quanto nel frattempo abbiano continuato ad evolversi gli altri. Non solo gli All Blacks, ma anche chi sta alle loro spalle. Questa è l’unica cosa che si può imparare per davvero, a quanto pare.
Per l’immediato futuro, invece, come ha saggiamente ribadito Tommaso Benvenuti in mix zone, la sfida di sabato “non fa testo”. Il problema, stando ai risultati dell’ultimo mese, è che nessuna delle prossime partite del Sei Nazioni 2019 potrebbe realmente “fare testo”.
L’Inghilterra sembra essersi ricompattata, l’Irlanda ha battuto gli All Blacks con autorità, il Galles è una macchina da vittorie e la Scozia (che verrà affrontata a Edimburgo) ha fatto penare il Sudafrica e battuto l’Argentina. La Francia? Ha perso con le Fiji, ma ha vinto contro l’Argentina, ha perso all’ultimo secondo contro il Sudafrica e possiede una quantità di talento di gran lunga superiore per gli azzurri. Per una squadra con poche prospettive sul breve termine come quella italiana, anche un avversario un po’ balbettante come i Bleus sembra poter diventare una sorta di “obiettivo” da puntare. Vietato illudersi, però. Saranno due mesi lunghissimi: siamo abituati, purtroppo.
Daniele Pansardi
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