Tre giovani stroncati da incidenti di gioco: il rugby è cambiato, e World Rugby deve agire subito
“Mia moglie è incinta. Avremo un maschio, ma non penso che lo spingerò a giocare a rugby quando crescerà” ha detto Nick Abendanon, estremo del Clermont, a L’Equipe.
Sono passate quattro mesi da quella dichiarazione: erano i tempi immediatamente successivi alla morte di Louis Fajfrowski, 21 anni, deceduto negli spogliatoi di Aurillac in una amichevole pre-campionato dopo essere stato colpito da un attacco di cuore causato da un placcaggio. Quella di Fajfrowski era la seconda morte di un giovane rugbista in Francia nel giro di poco tempo: in maggio Adrien Descrulhes era stato trovato senza vita nel suo letto, per un’emoraggia cerebrale riconducibile ad un colpo subito sul campo. Il diciassettenne era stato vittima di una concussion nella partita disputata il giorno precedente.
Questo fine settimana, il rugby ha pianto la morte di Nicolas Chauvin, giovane promessa del rugby parigino stroncato da un attacco cardiaco conseguente alla rottura di una vertebra cervicale in un placcaggio. Si tratta della terza vittima negli ultimi sette mesi, in Francia, per conseguenze dovute al gioco della palla ovale.
Intanto, nel resto del mondo altre fatalità accadono: in Canada Brodie McCarthy, un ragazzo di diciotto anni, è morto a maggio in uno scontro di gioco mentre vestiva la maglia del suo college, in Sudafrica un uomo di 31 anni, Kyle Barnes, in tour con il suo club statunitense, è deceduto dopo aver subito un colpo alla testa in uno scontro di gioco. E in Italia Rebecca Braglia è morta a maggio per le conseguenze di un placcaggio.
Troppe le vittime per continuare a pensare che siano tutte dovute ad incidenti, anche se Brett Gosper, il CEO di World Rugby, si è affrettato a definirli così, intervenendo ad una trasmissione televisiva francese per sottolineare la rarità statistica del verificarsi di tali tragedie.
La federazione internazionale, d’altronde, ci sta mettendo impegno: sono innegabili le azioni di World Rugby per migliorare la deterrenza del gioco pericoloso attraverso sanzioni più pesanti, tutto il lavoro di prevenzione e riconoscimento della concussion, i programmi di formazione sulla salute dei giocatori e anche la sperimentazione di nuove regole sull’altezza del placcaggio. Tutte azioni fatte per incrementare la sicurezza di chi gioca a rugby, senza snaturare il gioco.
Potrebbe però non essere abbastanza: è indicativo che tutte le vittime di rugby che abbiamo ricordato arrivino da un contesto non professionistico, ma intermedio. Il giocatore di rugby di alto livello oggi deve subire grandissimi impatti, ci sono rischi e pericoli, ma si tratta della figura meglio preparata fisicamente e tecnicamente per affrontarli.
Se guardiamo ai tre casi francesi, invece, vediamo tre giovani alle prese con un rugby dove ci sono tantissime differenze fisiche, con un alcune caratteristiche del gioco “dei grandi”, tanti impatti violenti ripetuti, ma con una preparazione mediamente inferiore.
“Per come è strutturato adesso [in Francia], il rugby non è adatto a un ragazzino di 15 anni” ha dichiarato Jean Chazal, neurochirurgo che fa parte dell’equipe medica del Clermont e che cerca di far sentire la propria voce nel mondo del rugby francese.
Secondo Chazal ci sono troppi rischi, i corpi dei ragazzi non sono ancora definitivamente sviluppati, e forse il rugby giovanile dovrebbe dividere i giocatori per categorie di peso, come gli sport di combattimento.
In Francia anche il ministro dello sport Roxana Maracineanu è intervenuto sull’argomento, dopo la morte di Nicolas Chauvin, facendo pressioni sulla federazione francese per prendere dei provvedimenti in merito.
E’ un dibattito triste e che nessuno ha il piacere di fare. Il mondo del rugby è da una parte spaventato, dall’altra preoccupato di non perdere la faccia che ha faticosamente lavorato per costruirsi di fronte al popolo di padri e madri che sono felici di mandare i propri figli a giocare. E’ un dibattito necessario per garantire un futuro a questo sport che è cresciuto, sotto tutti i punti di vista, e rischia di andare fuori strada se le redini non saranno tenute ben salde.
Il gioco del rugby è cambiato: giocatori sempre più grandi fisicamente, ritmi elevati, e un numero sempre crescente di impatti. Il tutto in un contesto in cui si gioca sempre di più, a tutti i livelli. Quando L’Equipe ha scritto che “il rugby uccide”, non è stato per un attacco frontale, ma un grido d’allarme perché tutto il mondo ovale affronti con coraggio la questione, e passi all’azione per porre rimedi. Non solo in Francia.
Lorenzo Calamai
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