L’Italia non riesce a trovare grandi certezze e continua a regredire in attacco. Ma davvero gli azzurri al momento non possono fare di più?
Non è stata un’Italia migliore rispetto a quella di Edimburgo. Anche se l’andamento della partita e la vicinanza nel punteggio per diversi minuti tra primo e secondo tempo potrebbero farlo pensare, la sconfitta contro il Galles ha avuto fin troppe somiglianze con la sconfitta contro la Scozia: magari non nello sviluppo del risultato, ma sicuramente nella prestazione offerta dagli uomini di Conor O’Shea.
L’impressione di un (lieve) miglioramento nel tempo è solo dovuta allo standard dell’avversario: il Galles si presentava con dieci cambi, senza Tipuric, Alun-Wyn Jones, Owens, North e i vari infortunati, e non poteva che essere una squadra più disunita e impreparata di una Scozia al massimo delle sue disponibilità.
L’Italia, un po’ come lo scorso marzo a Cardiff, non ne ha approfittato e si è dovuta scontrare con i propri limiti, sempre lì a ricordarci che gli azzurri al momento (e chissà ancora per quanto) non sono pronti a misurarsi con le consorelle del Sei Nazioni a un certo livello. Se la nazionale non esegue tutto alla perfezione, e allo stesso tempo l’avversario per qualche motivo non è al suo massimo, le chance di vittoria in un contesto del genere si riducono a zero. È un concetto ben consolidato: sabato all’Olimpico si è presentata la seconda condizione, ma sfortunatamente non la prima.
Il quadro generale, come detto, è stato lo stesso del Murrayfield: attacco inefficace e con poche opzioni, difesa gagliarda sia collettivamente sia individualmente, croniche difficoltà sui punti d’incontro, touche solida (anche se prevedibile nelle chiamate, tant’è che il Galles ha sempre potuto contendere) e mischia parecchio balbettante. Ma è il massimo che può offrire questa nazionale? Davvero è impossibile aspettarci di più in questo momento, considerando tutti gli infortuni? E dove ricadono le colpe tra giocatori e allenatori?
Il grande problema
Se l’anno scorso la difesa sembrava un rebus di difficile risoluzione, con gli avversari che segnavano mete a pioggia non appena alzavano intensità e velocità d’esecuzione, questa terza stagione di Conor O’Shea e relativo staff tecnico è all’insegna di una fase offensiva piuttosto desolante. Gli azzurri avranno anche segnato cinque mete in due partite, ma solo una è arrivata in un momento vivo della partita (quella di Steyn), in cui gli avversari non avrebbero dovuto subirne una per nessuna ragione al mondo.
Inoltre, prima e dopo la segnatura di Steyn, non sono arrivate né occasioni né segnali incoraggianti dall’attacco fino alla meta di Padovani, a dimostrazione di come la prima sia stata una meta quasi casuale se inserita in un contesto più ampio. La sterilità offensiva in teoria non sarebbe una novità nella storia recente dell’Italrugby, eppure è strano constatare come a distanza di un anno non sia rimasto più nulla delle buone idee e delle buone strutture di gioco viste a sprazzi – ma pur sempre viste – al Sei Nazioni 2018 o nel tour in Giappone.
Gli azzurri non erano certamente diventati una super potenza offensiva o una squadra iper produttiva, ma avevano messo in mostra cose interessanti e diverse sul piano tecnico e tattico, soprattutto nel gioco con gli avanti e nelle variazioni palla in mano.
In queste prime due partite, invece, sembra esserci stato un reset o quasi: i ball carrier pensano solo a incornare (anche in maniera inefficace, come vedremo nell’analisi più approfondita dei prossimi giorni) dritto per dritto, partendo costantemente da fermo e diventando facile bersaglio per la difesa; Allan, anche quando non è condizionato dalla lentezza dei palloni ricevuti, si prende meno rischi sia nell’attaccare la linea sia nel gestire la regia; sempre parlando degli avanti, sono sempre più rari i passaggi per legare il gioco con la mediana per fare da ponte.
Ci sono meno soluzioni, meno idee e più staticità. Sono bastati gli infortuni di Violi (e della sua riserva più forte) e Minozzi per causare questa regressione? Sicuramente Mike Catt, allenatore dell’attacco azzurro, avrà dovuto rivedere qualcosa senza i due giocatori delle Zebre in queste settimane, ma per il momento una reale ed effettiva strategia alternativa non si è vista davvero.
Una scarsa organizzazione offensiva, unita ai cronici problemi nel velocizzare i punti d’incontro, al dispendio di risorse nel proteggere il pallone e a un pack poco efficace in alcuni singoli, può produrre solo i (non) risultati visti contro Scozia e Galles: ball carrier che si isolano, situazioni facili da leggere per le difese avversarie e passaggi quasi sempre effettuati lontano dalla linea del vantaggio.
In conclusione (se ce n’è una)
Al momento l’Italia è questa, ma viene da chiedersi se possa essere solo questa. Visti i trend dell’ultimo anno, lo staff tecnico sembra un equipaggio marittimo che deve correre da una parte all’altra del ponte di coperta per mettere le toppe a una nave che imbarca acqua continuamente. O’Shea, De Carli, Goosen e Catt possono anche bloccare una perdita, ma a costo di riaprirne o trascurarne altre.
E così se la difesa riacquista punti per struttura e predisposizione dei singoli, l’attacco annaspa per assenze e carenze di ogni tipo; se la mischia fatica a ritrovare certezze, in touche perlomeno l’esecuzione è più precisa del solito; in tutto ciò, tra l’altro, gioco al piede e punti d’incontro sono peggiorati se possibile. In una situazione del genere, nemmeno delle condizioni fisiche, atletiche e mentali più che accettabili possono servire da collante per tenere insieme tutto.
Tecnicamente e tatticamente, insomma, l’Italia è una squadra che non riesce ad ancorarsi quasi a nulla. E se i giocatori non riescono a esprimersi al meglio, tocca inevitabilmente a chi li segue giorno dopo giorno cercare di mettere insieme i pezzi nel miglior modo possibile e con le migliori strategie possibili, a prescindere dalle sfide quasi impossibili che dovranno sostenere in campo. Ma questo è il meglio possibile?
Daniele Pansardi
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