Soddisfazione per i progressi compiuti o recriminazioni per l’occasione persa? Tutte e due, in fin dei conti
Mezzo pieno o mezzo vuoto? La sconfitta contro l’Irlanda fa vedere il bicchiere italiano da due prospettive diverse, come sempre accade quando la nazionale azzurra disputa delle buone prestazioni contro squadre di livello superiore, mettendo in mostra il proprio valore ma allo stesso tempo sottolineando comunque quei difetti che non permettono di completare l’opera in giornate apparentemente favorevoli.
Quella di domenica può essere considerata a tutti gli effetti sia un’occasione persa sia un segnale positivo nel percorso del gruppo azzurro, senza che l’uno escluda l’altro. Non è tutto bianco, non è tutto nero: l’Italia resta una nazionale in pieno sviluppo e molto incostante a questi livelli, ma partite del genere fanno capire anche come ci siano dei validi motivi per credere in un futuro migliore, nonostante tutto.
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Rispetto alle sfide contro Scozia e Galles, insomma, in questo Sei Nazioni 2019 lati positivi e negativi per la prima volta si bilanciano, specie se si considerano anche le gravi difficoltà nell’affrontare l’Irlanda negli ultimi anni e ovviamente la caratura dell’avversario. Li abbiamo messi in ordine, per cercare di restituire una visione d’insieme per un match che ha lasciato inevitabilmente sensazioni contrastanti.
Perché essere soddisfatti
- Le premesse erano nefaste: 58, 63, 56 e 54 erano i punti subiti nelle ultime quattro uscite dagli azzurri contro l’Irlanda, per cui tutto lasciava presagire a un’altra partita di grande sofferenza. L’applicazione italiana, i tanti errori irlandesi e le due mete di Morisi e Padovani hanno invece portato la partita su binari diversi, permettendo all’Italia di offrire la miglior prestazione contro l’Irlanda nel Sei Nazioni dalla vittoria nel 2013 a questa parte.
- Una partita giocata fino in fondo: cosa che non era successa né contro il Galles tanto meno contro la Scozia. Pur subendo quattro mete e concedendo comunque i cinque punti, gli azzurri non sono mai usciti dal match e a livello fisico non sono mai stati sopraffatti dall’Irlanda, se non quando la naturale differenza di cilindrata ha presentato il conto. In nessun momento, tuttavia, l’Italia ha dato la sensazione che gli avversari potessero dilagare o prendere il totale controllo del match. Un buon livello di fitness mentale, non solo fisico. Sperando non si tratti solo di una tantum.
- Un attacco riscoperto: la squadra ha saputo costruire diversi multifase interessanti, alternando cariche degli avanti in verticale a buoni angoli di corsa che hanno saputo erodere la difesa irlandese in più occasioni. L’Irlanda ha puntato spesso a ‘soffocare’ i portatori di palla, cercando di togliere subito il pallone agli azzurri (e in un paio di casi ci è riuscita), ma l’aggressività sui punti d’incontro e nelle collisioni è stata sicuramente apprezzabile e ha garantito tanti palloni di qualità. Il ritorno di Tito Tebaldi in squadra ha poi contribuito con quelle indispensabili dosi di qualità ed effervescenza mancate nelle settimane precedenti, tant’è che il nocetano è stato forse il migliore in campo per l’Italia.
- Non far sentire le assenze: in assenza di ball carrier importanti come Polledri, Parisse e Negri e di un giocatore capace di dare la scintilla alla squadra come Minozzi, l’Italia ha saputo trovare comunque delle armi interessanti. Mbandà e Tuivaiti hanno disputato una partita generosa e di grande sostanza, più di quanto ci si potesse aspettare forse; Ruzza ha confermato di poter essere un titolare di questa squadra, oltre che un giocatore completamente diverso da quelli dell’attuale rosa; Jayden Hayward è stato illuminante; Edoardo Padovani si sta rendendo utile quando chiamato in causa, oltre a essere diventato un’opzione interessante per i palloni alti, mentre Ghiraldini e Steyn (e in parte anche Budd) hanno saputo sobbarcarsi sulle spalle un carico di lavoro maggiore del solito.
Perché recriminare
- Indisciplina: come ha detto O’Shea, non si può dare alla direzione di Glen Jackson (la cui prestazione non è stata sufficiente, in ogni caso) la responsabilità esclusiva di quattordici calci di punizione. L’Italia ha probabilmente peccato nell’adattarsi al metro dell’arbitro.
- Il risultato finale, banalmente: l’Italia ha dato il massimo, mentre l’Irlanda – senza Healy, Best, Ryan, Toner, Stander e Ringrose e con Murray e Sexton ampiamente sottotono – con una prestazione del tutto negativa è riuscita comunque a conquistare cinque punti e il bottino pieno. Sapere che l’avversario, nonostante una delle partite più brutte degli ultimi anni, sia riuscito ugualmente a raggiungere il proprio obiettivo aumenta la frustrazione, soprattutto ripensando alla meta rocambolesca segnata da Stockdale nel primo tempo arrivata su un errore davvero dilettantesco degli azzurri sul calcio d’invio.
- Errori troppo pesanti: l’attacco ha funzionato bene, ma in alcuni momenti decisivi del match non c’è stata la consistenza necessaria, come nel caso del brutto passaggio di Tebaldi a Zanni nel secondo tempo; la touche ha lavorato in maniera efficace, ma poi ha toppato il lancio forse più importante del match anche a causa della sapienza di O’Mahony. Il 16-26 si è deciso anche su alcuni piccoli dettagli attorno ai quali girano di solito le partite, e che spiegano perché l’Italia si perda sul più bello nei frangenti più caldi della partita, in particolare contro squadre più scafate e maliziose (anche quando sono in giornata no).
- Punti al piede: alla fine del primo tempo, Tommaso Allan aveva lasciato per strada sette punti dalla piazzola dopo un calcio di punizione e due conversioni non trasformate. È vero che le due conversioni non erano semplici viste le posizioni defilate, ma va sottolineato come il mediano d’apertura del Benetton non stia brillando dalla piazzola in stagione, visto che viaggia con una percentuale di poco sotto al 60%. Difficile soffermarsi invece sull’errore di Ian McKinley a tempo scaduto, sia perché la partita era ormai finita sia per la strana decisione (arrivata dallo staff tecnico) di voler cercare il bonus difensivo attraverso una punizione piuttosto complicata.
Daniele Pansardi
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