Come si vive il rugby in Giappone: il sistema di formazione dei giovani

La crescita dei ragazzi ruota soprattutto attorno a scuole e università, con tradizioni molto radicate che attirano anche diverse critiche

yoshikazu Fujita giappone rugby

Yoshikazu Fujita avvolto nella bandiera giapponese (ph. Reuters)

Continua la nostra serie di articoli dedicati al Giappone, al suo movimento e alla sua cultura così lontana e per certi versi impenetrabile agli occhi degli occidentali. È il nostro modo di accompagnarvi passo dopo passo alla Coppa del Mondo 2019, la prima oltre i classici confini di Ovalia. Dopo esserci occupati del campionato giapponese e del rapporto tra club e aziende, questa volta Roberto Neri ci porta dentro il sistema del rugby giovanile.

– Prima parte: la Top League e la sua storia
– Seconda parte: le stelle del campionato giapponese
– Terza parte: l’inimitabile rapporto tra club e azienda

Il rugby giapponese si regge tradizionalmente sulle enormi disponibilità economiche delle grandi compagnie del Paese per quanto riguarda il livello seniores, mentre per quanto concerne il rugby giovanile è tutto demandato alle scuole. In Giappone i ragazzi entrano a scuola alle 8 di mattina e ne escono in genere verso le 18/19, solitamente per andare a seguire corsi serali privati aggiuntivi, allo scopo di incrementare le loro probabilità di passare i test d’ingresso nelle migliori scuole e università.

All’interno delle scuole giapponesi si crea quindi una sorta di mondo parallelo, in cui gli studenti passano la maggior parte del loro tempo e svolgono ogni tipo di attività, grazie ai numerosi club messi a disposizione degli studenti e in genere gestiti dagli studenti stessi. La rivalità tra scuole è elevatissima: ciascuna ha le sue divise, i suoi inni, le sue mascotte eccetera. Di conseguenza le varie competizioni sportive sono prese molto sul serio, e non di rado le partite, anche a livello di scuole superiori sono trasmesse da tv locali e trattate sui quotidiani, oltre a registrare una presenza sugli spalti davvero significativa.

Per il match giocato lo scorso anno tra l’università Meiji e l’università Waseda, due delle più rinomate del paese, il Prince Chichibu Stadium, ovvero lo stadio della nazionale e dei Sunwolves da quasi 25.000 posti, ha registrato il tutto esaurito; chi non è riuscito ad entrare allo stadio ha ripiegato sui pub presenti nella zona che erano letteralmente invasi dai sostenitori delle due squadre attrezzati con ogni gadget disponibile.

Anche se come sport di squadra il rugby nel Paese si classifica in quinta posizione, dopo baseball, calcio, basket e volley, negli ultimi anni l’ovale sta facendo registrare una forte crescita dopo il boom mediatico raggiunto con la sorprendente avventura della nazionale nipponica alla Coppa del Mondo inglese del 2015 e l’imminente torneo iridato che inizierà a settembre proprio in Giappone. Attualmente il Giappone può vantare la quarta più grande popolazione ovale al mondo con 125.000 tesserati, 3.631 club ufficiali. Il rugby è presente in più di 10.000 scuole distribuite su tutto il territorio.

Per quanto riguarda le scuole superiori, il Torneo Nazionale di rugby per scuole superiori giapponesi si tiene annualmente sin dal 1917. Il torneo ha il suo culmine con la fase finale che si tiene all’Hanazono Rugby Stadium di Osaka (circa 26.000 spettatori), stadio che sarà anche una delle sedi della RWC giapponese.
Alla fase finale che si svolge tra la fine di dicembre e gli inizi di gennaio partecipano tutte le 47 prefetture del Giappone, rappresentate dalla scuola vincitrice di ogni rispettivo torneo prefetturale, alle quali vanno aggiunte altre quattro scuole vincitrici dei tornei di ripescaggio, provenienti da quattro aree territorialmente più grandi che sono l’isola di Hokkaido a nord e le metropoli di Tokyo, Osaka e Kyoto.

Il seguito che raggiunge questa competizione ha dell’incredibile, considerando che si tratta di squadre di ragazzini di 15-18 anni; non è infatti raro che ci sia gente che segua la squadra della propria prefettura anche partendo da città molto distanti da Osaka, attrezzata di tutto punto con bandiere e magliette della scuola. E ad ogni partita ci sono migliaia di spettatori sulle tribune.

Tifosi e “manager”

Tutti abbiamo ben presente le cheerleader dei classici film americani ambientati nelle scuole, ma i giapponesi non si potevano fermare a qualcosa di così classico. Sulle tribune di molte scuole, infatti, si possono trovare i tifosi dei club che si muovono tra i vari campi da gioco delle squadre della loro scuola per supportare i team, con tamburi, bandiere, cori e quant’altro, esattamente come molti di noi ricorderanno dal cartone animato “Holly & Benji”, per intenderci.

A partire dalle superiori, inoltre, ogni club deve avere un numero minimo di “manager”, ovvero studenti che hanno la responsabilità di gestire il funzionamento dei club. Questi manager hanno svariati compiti che, per quanto riguarda il club di rugby, vanno dalle cose prettamente legate al campo come: portare le attrezzature, portare l’acqua e fare prime medicazioni, a cose più burocratiche come compilare la lista di giocatori o fare richieste alla scuola per nuovi materiali. Sono inoltre tenuti a seguire la squadra in tutti gli allenamenti, partite e ritiri; un impegno non da poco considerando che i ragazzi si allenano tutti i giorni da lunedì a venerdì dalle 16 alle 19:30, mentre il sabato o la domenica giocano la partita in calendario oppure fanno un allenamento aggiuntivo.

Il cuore del rugby giapponese: l’università

Il rugby universitario è estremamente radicato nella tradizione giapponese, tanto che a oggi il record di presenze allo stadio è detenuto da un match universitario e non da un test internazionale.  Il rugby, infatti, in Giappone ha una tradizione ben più lunga di quanto non ci si aspetti, con la prima squadra fondata nel Paese addirittura nel 1866, a Yokohama, su iniziativa dei marinai inglesi che qui facevano porto durante i loro commerci nel Sol Levante, ma anche da membri della Royal Navy.

A quei tempi, però, i condizionamenti razziali erano molto forti e soltanto inglesi, o quantomeno occidentali, giocavano a rugby. I giapponesi non venivano mai coinvolti in queste manifestazioni, e probabilmente non ne avevano nemmeno intenzione. Il primo contatto rugbistico tra questi due mondi si ebbe solo nel 1901 quando la squadra della Keio University di Tokyo, fondata da uno dei professori, l’inglese Edward Bramwell Clarke ma nato a Yokahama, affrontò la squadra degli stranieri di Yokohama. La partita, in cui anche Clarke giocò assieme ai suoi studenti nella squadra universitaria, si risolse con un 35-5 per gli “occidentali” ma, da quel momento in poi, il rugby iniziò a diffondersi sempre più nei vari circoli universitari, e nel 1923 si giocò la prima partita tra università.

Dopo la distruzione lasciata dalla Seconda Guerra Mondiale furono sempre le università a riportare il rugby in alto e a reintrodurlo al Paese, visto che durante gli anni militaristici del Giappone il rugby fu bollato come pratica straniera ed accantonato, anche se in realtà si continuò a giocarlo sotto il nome di tokyu, traducibile a grandi linee come “palla da combattimento”. Le tradizioni, si sa, sono dure a morire in Giappone, ed ecco che ancora ai giorni nostri l’università è il perno attorno a cui gira tutto il sistema-rugby nipponico: qui ambiscono ad arrivare tutti gli studenti-giocatori e da qui pescano a piene mani i club della Top League.

Il torneo All-Japan University si tiene dal 1964 e stabilisce quale sia la squadra universitaria più forte del Paese.
Dopo le riforme apportate alla struttura del rugby nipponico nel 1993, alla fase finale dell All-Japan University Tournament si qualificano 9 squadre provenienti dai tornei del Kanto (area di Tokyo), 4 dal Kansai (area di Osaka e Kyoto) e la vincitrice del torneo del Kyushu (l’isola maggiore più a sud del Giappone) più un’altra squadra che passa tramite ripescaggi e spareggi. La detentrice del maggior numero di trofei è l’università Waseda di Tokyo; al secondo posto c’è la Meiji, anch’essa di Tokyo, ma dal 2009 ad oggi il titolo è stato ininterrottamente vinto dall’università Teikyo, anche questa di Tokyo.

Fino a qualche anno fa esisteva anche un torneo che vedeva la partecipazione delle prime squadre della Top League, delle due squadre finaliste del campionato per club e delle due finaliste del campionato universitario, ma ora le squadre universitarie non vi partecipano più.

Le critiche al sistema 

Da quando la presenza di stranieri nel mondo ovale nipponico è aumentata, molti addetti ai lavori, provenienti dalle nazioni rugbisticamente più evolute, hanno tuttavia espresso giudizi non sempre positivi sul sistema di sviluppo dei giocatori qui in Giappone, accusandolo principalmente di ritardare la maturazione dei giocatori d’élite, creando, nonostante l’alto potenziale umano e strutturale del paese, quel gap che ancora non permette alla nazionale di competere ai massimi livelli.

Secondo alcuni un primo limite si riscontrerebbe fin dalle scuole elementari. Come dicevamo in precedenza, le scuole in Giappone occupano l’intera giornata dei propri studenti, offrendo anche molte attività di club, ma complici i molti impegni nella vita di uno studente giapponese e la serietà con cui vengono presi i club e tutte le altre attività, è possibile scegliere un solo club. Secondo alcuni il fatto che, nel caso del rugby, molti bambini inizino dai sei anni di età a giocare soltanto a rugby è positivo, altri ritengono però che la mancata possibilità di dedicarsi anche ad altri sport limiti lo sviluppo del potenziale tecnico e atletico dei ragazzi.

Le vere critiche al sistema giapponese si condensano tuttavia a livello universitario. Il limite principale è ritenuto essere il fatto che i giocatori rimangono bloccati nel rugby universitario per 4 anni, giocando solo con ragazzi di 18/22 anni, ad un livello non sufficiente, per poi approdare in Top League (anche quella non ritenuta a livello dei massimi campionati europei o del Super Rugby) e, non essendo ancora pronti, in genere, passano tutta la prima stagione in panchina. Come risultato spesso i ragazzi sono pronti fisicamente e mentalmente all’età di 24/25 anni. A quell’età i ragazzi si trovano ad un livello tecnico e di esperienza che in altri paesi rugbisticamente sviluppati si ha a 20/21 anni.

Il livello degli allenatori inoltre non è considerato all’altezza delle richieste del rugby moderno, in chiave di sviluppo di atleti al top del livello. I critici sostengono che ci si concentri troppo su esercizi di base ed ormai superati, ma si sa, il Giappone non ama molto i cambiamenti. Emblematiche le frasi dette da Eddie Jones ai tempi del suo insediamento sulla panchina giapponese, in cui affermava: “Non so cosa facciano i ragazzi ad allenamento, ma di certo devono cambiare”.

Jones, di cui ormai tutti ben conosciamo la passione per la polemica, accusava il rugby universitario di essere un touch rugby, troppo pulito e poco propenso al placcaggio. Accusava inoltre gli allenatori di dare più importanza alla disciplina e alla perfetta esecuzione piuttosto che all’iniziativa; sempre secondo le parole di Jones, una volta assistette ad un allenamento universitario di due ore, in cui per più di un’ora i giocatori non fecero che correre per tutta la lunghezza del campo passandosi la palla, un approccio fin troppo marziale per Jones.

Eccezioni alla regola

In Giappone tutto avviene in modo molto standardizzato e non ci si inventa niente. Le eccezioni al sistema sono veramente poche e solitamente non gradite. Tuttavia due eccezioni che possiamo definire ‘riuscite’ sono Yoshikazu Fujita e Kotaro Matsushima. Fujita, che ha creduto molto nel suo futuro da rugbista ed è stato appoggiato dalla sua famiglia, si è recato più volte in Nuova Zelanda sin dalla giovane età per inseguire i suoi obiettivi nel rugby.

Dopo alcuni viaggi, finalizzati a migliorare il suo rugby, fatti ancora quando era molto giovane, tra i quali una stagione giocando a rugby scolastico al St Bede’s College di Christchurch, è tornato in Nuova Zelanda da adolescente per giocare una stagione di rugby di club nel Linwood RFC, ed ha inoltre avuto la possibilità di allenarsi con la squadra di Canterbury militante in Mitre 10 Cup, ed è tornato anche in seguito per altre esperienze. Ciò è davvero inusuale per un giocatore giapponese, che culturalmente non è propenso a mettere in dubbio il percorso prestabilito ed intraprendere iniziative personali.

Kotaro Matsushima, per metà giapponese e per metà sudafricano, è uno dei pochi che ha saltato completamente il livello universitario. Dopo la scuola superiore, “sfruttando” il padre sudafricano, ha infatti deciso di testarsi e confrontarsi con il sistema sudafricano, entrando nella Sharks Academy. Se fosse rimasto in Giappone, avrebbe quasi certamente ritardato i suoi progressi di 3/4 anni secondo Jones.

Il talentuoso pilone Keita Inagaki è un altro interessante profilo che vale la pena analizzare. La sua convocazione in nazionale è avvenuta dopo una brillante prima stagione in Top League, mentre l’esordio è avvenuto nel 2014 contro i Maori All Blacks, dove a sorpresa, ha messo in ginocchio la prima linea avversaria, composta da tutti giocatori con esperienze in Super Rugby.

Inagaki era stato già da tempo indicato come futuro giocatore importante in ottica nazionale, eppure nonostante un’ottima carriera universitaria, un’ottima stagione in Top League e un ottimo esordio internazionale, si ritrovava a 24/25 anni senza praticamente nessuna esperienza internazionale, a causa – secondo i detrattori – del sistema giapponese in particolare al rugby universitario. A quell’età, piloni coetanei di Inagaki, come per esempio Joe Marler o Xavier Chocci, erano già giocatori pienamente formati, con 4/5 anni di Top 14 o Premiership già alle spalle ed un’esperienza internazionale già considerevole.

“Per la maggior parte è quasi impossibile per i giocatori dell’università essere seriamente considerati per un ruolo significativo per la squadra nazionale” furono le parole di Jones all’epoca. Difatti gli unici due universitari convocati al primo raduno dell’era Jones furono il sopracitato Fujita, che però è un caso particolare, e la brillante ala Kenki Fukuoka.

Forse il sistema giapponese non è perfetto, forse davvero le università sono un freno alla maturazione di esperienze di livello internazionale per le giovani promesse nipponiche, eppure anno dopo anno il livello del rugby giapponese continua ad incrementare, e – anche se lentamente – sta provando ad aggiornarsi. Sicuramente la passione, la tradizione ed il folklore che esistono attorno allo sport scolastico e universitario sono uno dei tratti distintivi della società giapponese moderna, quindi, con buona pace dei critici, difficilmente questo stato di cose cambierà. A maggior ragione in uno sport che già di suo è legato a doppio filo con le origini e la tradizione come il rugby.

Roberto Neri

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