Sei Nazioni, permit players e sviluppo del rugby italiano: intervista a Conor O’Shea

Abbiamo incontrato l’head coach degli Azzurri per una chiacchierata sul torneo appena finito e sulle prospettive del movimento italiano

Conor O'Shea

ph. Sebastiano Pessina

Verona – L’appuntamento con Conor O’Shea è in un caffè del centro storico di Verona. In quasi tre anni di presenza in Italia il ct azzurro ha preso anche qualche abitudine tipicamente nostrana. Come si siede ordina un espresso: e a distanza di pochi minuti ne ordina un altro.

Intavola lunghi discorsi, densi di contenuti e di argomenti correlati, per poi ogni tanto interrompersi e sorridere: “Scusate, quando sono appassionato, emozionato, entusiasta, tendo a parlare molto.”

Mentre le nuvole si addensano sopra il profilo dell’Arena alle nostre spalle, qualche raggio di sole illumina Piazza Bra, in una sorta di metafora del rugby italiano.

Il Sei Nazioni si è concluso ancora una volta con l’Italia all’ultimo posto, senza aver vinto nessuna partita. La frustrazione per le sconfitte, su tutte quella contro la Francia nell’ultima giornata, è stata ovviamente alta. Se però, adesso che la polvere si è posata, guardiamo a quest’ultima edizione, possiamo dare un giudizio equilibrato sul nostro torneo. In sede di presentazione tu e Sergio Parisse avete detto che sarebbe stato un Sei Nazioni difficilissimo, forse il più duro di sempre, ma abbiamo finito per giocarci la vittoria in tutte e 3 le partite casalinghe. Come giudichi il Sei Nazioni dell’Italia a un mese dalla conclusione?

Passata l’emozione del momento, penso che ci siano state tante cose positive per noi. In particolare, come hai detto tu, nelle tre partite giocate in casa. Quello che abbiamo detto sul fatto che fosse un Sei Nazioni molto duro era giusto. Mi concentro su quei tre incontri: la differenza fra noi e il Galles, l’Irlanda e la Francia è stata non tanto nelle cose che hanno fatto loro, quanto quelle che non abbiamo fatto noi. Questo rende le cose più difficili da digerire dal punto di vista mentale. Se però continuiamo, come abbiamo fatto finora, a costruire l’abitudine di offrire prestazioni di questo livello, siamo in grado di ridurre il gap con le squadre più forti. Questo gruppo ha non solo la speranza, ma anche la convinzione di poterlo fare, come ha dimostrato non solo nelle tre partite che abbiamo citato, ma anche in Giappone, contro l’Australia, contro la Scozia nel Sei Nazioni dello scorso anno.

Quanto hanno inciso i tanti infortuni di questa stagione sul nostro Sei Nazioni?

Per noi è fondamentale poter mettere in campo i nostri giocatori migliori. Abbiamo avuto diversi infortuni, come le altre squadre, e come per le altre squadre questo ci ha portato dei problemi. Dover sostituire uno o due giocatori non è un problema, ma quando cominciano a essere cinque o sei lo diventa per tutti. Ne è un esempio la Scozia: dopo aver giocato contro di noi ha perso Finn Russell, WP Nel, Huw Jones, Stuart Hogg e altri. Il movimento scozzese quest’anno ha portato sia Edinburgh che Glasgow ai quarti di Champions Cup, eppure senza quattro o cinque giocatori di primo livello sono stati in difficoltà.
E’ vero che abbiamo accresciuto la profondità della nostra rosa, ma ancora non siamo al livello che desideriamo. Sicuramente la situazione è migliorata rispetto al passato. Guardiamo il profilo della nostra squadra, lasciando da parte Sergio [Parisse], Ale [Zanni] e Leo [Ghiraldini]: abbiamo un gruppo di giocatori che sarà ancora insieme per i prossimi 3, 4 o 5 anni, nel periodo migliore per la carriera di un rugbysta, fra i 27 e i 31 anni di età.

Da dove si riparte dopo un Sei Nazioni così?

La mia opinione è che la nostra sfida consista nello sviluppare le potenzialità che abbiamo dimostrato.
Ho incontrato il presidente Gavazzi la settimana scorsa, gli ho detto che il lavoro di Kieran [Crowley] e Antonio [Pavanello] con il Benetton è incredibile. La profondità della rosa, la struttura, l’ambiente: è davvero una bella squadra.
La scorsa stagione abbiamo preso il totale controllo delle Zebre, che l’anno prossimo riusciranno ad avere 42 giocatori full time, otto permit players e quattro giocatori under 20. In questo modo avranno più profondità, visto che quest’anno i tanti infortuni li hanno messi in difficoltà.
Continueremo su questa via, cercando di sviluppare tutti i giocatori giovani con le nostre due franchigie. Poi per noi è una cosa positiva se ad alcuni, come a Minozzi, capita l’occasione di andare a giocare all’estero, visto che comunque abbiamo nuove leve dietro di loro. Pensiamo ai talenti che stanno crescendo, come Jacopo Trulla, estremo della nazionale under 20, o Paolo Garbisi all’apertura. E intanto abbiamo Antonio Rizzi che è cresciuto tantissimo durante la stagione con Benetton.
La strada che ci aspetta è molto dura, ma finalmente c’è un riconoscimento del nostro lavoro. Warren Gatland ha detto che questa è la miglior squadra italiana che ha affrontato nei suoi 12 anni come head coach del Galles. Ho avuto un messaggio da Joe Schmidt, con cui mi sento spesso, e anche loro sanno che siamo migliorati molto e abbiamo il profilo giusto per dire la nostra se continueremo in questo modo. Certo, saranno necessari tanti altri cambiamenti, ed è difficile mantenere la fiducia e l’energia perché vorrei vincere subito, ma questo è il mio lavoro.

I permit players delle Zebre si alleneranno tutto l’anno con la franchigia?

Sì. Vogliamo replicare un po’ la struttura dei dual-registered players che abbiamo osservato in Inghilterra e in Irlanda [dove i giocatori vengono registrati sia per i top club che per le squadre delle serie minori, avendo così modo di allenarsi con i migliori, ma anche la possibilità di scendere regolarmente in campo]. I permit players devono giocare, non ha senso per loro allenarsi tutto il tempo e basta. Certo, sarà un po’ difficile per i club di Top 12 che non avranno alcuni giocatori nel pre-stagione o all’inizio della settimana, ma solo per l’ultimo allenamento prima della partita. Capiamo che non è semplice, però pensiamo sia una cosa da fare. Questo perché ogni giocatore è diverso: qualcuno può essere già pronto per giocare nelle franchigie appena finita l’Accademia, qualcun altro invece si sviluppa più tardi. Facciamo un esempio: Tommaso Castello forse non sarebbe stato adeguato al livello a cui è arrivato adesso a 19 anni, è un caso di late development.
La buona notizia è che abbiamo un sistema, forse non perfetto, ma che è strutturato come una piramide che va dai club che sono alla base, alle squadre di Top 12, alle franchigie e quindi alla nazionale. La squadra nazionale deve essere la punta, tutti devono lavorare per la nazionale.
Io penso che adesso, dopo due anni di aggiustamenti, abbiamo costruito il giusto sistema per i permit players. Ora lo sono non solo nel nome, ma di fatto.

A volte quello dei permit players sembra un po’ un problema di potere: a chi è affidato quindi il controllo dei giocatori? Chi tiene il coltello dalla parte del manico?

Io penso che per i giovani giocatori dobbiamo essere noi. La direzione del rapporto deve essere dalle franchigie verso i club, e non il contrario. Ma il punto centrale della questione è lavorare insieme, vogliamo tutti le stesse cose.
Abbiamo grandissime abilità in ballo con i giovani che stanno emergendo: guarda le seconde linee, guarda Garbisi a 10 e Trulla da estremo. Abbiamo un sacco di talento, se lo gestiamo bene. Non dico che batteremo gli All Blacks, questo no. Ma dopo la partita contro il Galles, per la prima volta, ho detto che abbiamo incominciato a scalare la nostra montagna nella maniera più appropriata. Abbiamo lavorato e lavorato per darci anche solo la possibilità di crederci, e con le cose che stanno migliorando anche intorno alla squadra, finalmente pure il gruppo ha incominciato a essere convinto. E quando torneranno Minozzi, Bellini, Violi e Licata si alzerà ancora di più il livello di competizione. Basta pensare alla nostra terza linea per vedere che la competizione sta alzando lo standard di tutti, e pensa quando entreranno nel gruppo Lamaro e Pettinelli. Senza contare Sergio, che è probabilmente alle ultime presenze in nazionale, abbiamo Steyn, Polledri, Negri, Licata, Mbanda, Jimmy [Tuivaiti], Barbini, Lamaro, Giammarioli, Pettinelli, Koffi, Ruggeri, tutti questi ragazzi, è incredibile. Ma la competizione li migliorerà tutti, e noi vogliamo generare questa spinta per ogni ruolo.

In merito alla struttura piramidale della nostra filiera di produzione dei giocatori, che hai menzionato prima, credi che il mattone Top 12 sia così necessario? Ci sono giocatori che escono dall’Accademia o dalla nazionale under 20 e sembrano pronti per il Pro14. A volte, poi, sembra che il passaggio obbligato dal campionato domestico finisca per bloccare il loro sviluppo come giocatori, più che rafforzarlo.

Non tutti i giocatori che escono dalla under 20 saranno giocatori del massimo livello. E se ci mettiamo a scegliere tra noi che siamo seduti a questo tavolo, ognuno prenderà un giocatore che preferisce e pensa possa essere immediatamente pronto. Quindi ci dobbiamo fidare del giudizio di coloro che sono nella posizione di dover fare le scelte.
Ogni anno identificheremo una decina di giocatori di 18/19 anni, che andranno direttamente a far parte delle franchigie e poi accumuleranno minuti in Top 12 se non vengono selezionati nel fine settimana.
Ci sono giocatori come Jacopo Trulla che potrebbero giocare da subito con una franchigia. Forse anche Matteo Nocera, seppure sarebbe una grande scommessa. Ma potrebbe anche volerci tempo, potrebbe fare qualche presenza in Pro14 e giocare alcune partite in Top 12, che nella sua posizione offre un confronto di buon livello. Così come ci potrebbero essere altre situazioni di giocatori che riescono a emergere solo dopo un paio d’anni di Top 12, come è successo al già citato Castello, ma anche a Maxime Mbanda. Ma il punto è che li terremo d’occhio, per capire cos’è meglio per ciascun caso.
Se ogni anni identificheremo 10 giovani, o magari 8, può anche essere che uno solo emerga. Mi ricordo che un anno, agli Harlequins, solo un giocatore della nostra academy venne promosso in prima squadra. Tutti gli altri vennero lasciati fuori.
Ma se noi facciamo questo lavoro con 10 giovani ogni anno per 10 anni, sono 100 giocatori da cui puoi permetterti di selezionare i migliori.

Ora la domanda che devo farti però è: perché tutto questo non è stato fatto prima?

Penso che in parte sia stato fatto, il sistema era in piedi. Quello che dico io, e non per nascondermi dietro giustificazioni, è che ci sia una barriera culturale: ‘abbiamo sempre fatto così, perché cambiare?’
Ho già avuto questa discussione altre volte: non è perché facciamo una cosa in un certo modo quest’anno, che l’anno prossimo sarà ancora automaticamente valida. Senza aggiustare e cambiare qualcosa in continuazione, non continueremo a produrre giocatori. È successa la stessa cosa in Inghilterra, si è creato un vuoto. Bisogna tenere conto del fatto che il lavoro che arriva alla luce oggi è quello che è stato fatto dieci anni fa. I giocatori che stanno emergendo che ho menzionato prima non hanno niente a che vedere con quello che ho fatto io. E’ un lavoro che è stato fatto quattro o cinque anni fa a livello giovanile. Ma noi abbiamo trascurato il modo con cui portare questi giocatori all’alto livello. Ci siamo limitati a pensare che avessero da affrontare il Top 12. Ma non funziona così, il gioco è cambiato.
Kyle Sinckler era in panchina per gli Harlequins contro il Tolosa a 18 anni. Joe Marler ha giocato la sua prima partita per i Quins contro il Leicester a Welford Road: mischia sui nostri cinque metri, Castro a pilone destro per i Tigers. Mi ricordo che ero in tribuna, ho detto: mettiamolo in campo. Per difendere quella mischia. E mi ricordo l’allenatore degli avanti al mio fianco: non possiamo, c’è Castro di fronte, Joe ha 19 anni, lo distruggerà. E io: beh, scopriamolo. Da estremo, posso permettermi di dirlo!
Joe ha tenuto in mischia, e improvvisamente avevamo una scelta in più a pilone sinistro.
Quindi, ci sono giocatori che sai che sono pronti subito, lo vedi. Altri per i quali invece serve tempo. Quello che è successo, però, è che in Italia abbiamo lasciato che si creasse un buco, proprio mentre tutti gli altri stavano costruendo e migliorando il proprio sistema di academies e di sviluppo dei giovani. Siamo ancora lontani da aver aggiustato tutto, ma tutti vedono che è una cosa che adesso stiamo facendo.
Questo significa che vinceremo le prossime cinque partite? No. Ma se continuiamo a perfomare come stiamo facendo e aggiungere giocatori sempre migliori, avremo risultati conseguenti.
Quindi, tornando alla domanda, penso che in passato non abbiamo fatto dei cambiamenti perché non era in nostro potere. E a proposito di potere, che hai citato prima parlando di permit players e del possibile conflitto fra gli interessi dei club e quelli del movimento, alla fine tutti devono farsi una domanda: che cos’è importante? Sono più importante io, o è più importante l’Italia?
I club hanno fatto la storia di questo movimento, e questo non si discute. Ma se parliamo di tutto il Top 12 e parliamo di togliere loro 10 giocatori, è davvero un problema?

Da quando sei CT della Nazionale italiana, hai più volte parlato di un percorso, del fatto che stiamo percorrendo una strada lunga e difficile, ma la direzione è quella giusta. Qual è il traguardo e a che punto siamo dal raggiungerlo?

Penso che parte del lavoro fatto finora lo vedremo nel giro di sei, sette mesi. Credo tantissimo in quello che questo gruppo può esprimere nella singola partita. Tutto quello che possiamo fare è continuare a metterci in situazioni come quella di Padova contro l’Australia, come quelle contro Irlanda, Galles e Francia in questo Sei Nazioni, come la Scozia lo scorso anno. Ancora, ancora e ancora. Anche gli arbitri incominceranno a vedere le cose in maniera diversa: ora come ora, al terzo crollo dopo due mischie chiuse, chi sarà punito fra Inghilterra e Italia? L’Italia. Ma anche queste cose cambiano, le percezioni cambiano.
La nostra forma fisica è migliorata, siamo maggiormente in grado di mantenere il livello durante gli ottanta minuti, ma ci manca ancora la capacità di concedere meno agli avversari. Diamo troppe opportunità a chi gioca contro di noi nei momenti più intensi delle partite. Non si tratta di una mancanza di fitness, ma di una mancanza di abilità di replicare le azioni nell’intensità. Ogni squadra concede delle opportunità al proprio avversario, ma noi dobbiamo riuscire a concederne meno di così.
Però, se ci pensiamo, solo un paio d’anni fa ci trovavamo a riflettere su come poter riuscire anche solo a stare in partita. E tutti ci dicevano: dovete giocare di più il pallone! Ma non potevamo, e se lo facevamo eravamo spacciati. Ora invece possiamo mantenere il possesso, non scompariamo negli ultimi 10/15 minuti, e gli avversari lo sanno. Certo, facciamo ancora errori, ma è una questione mentale. Prendiamo la partita con l’Inghilterra: Michele [Campagnaro] manca il placcaggio su Manu Tuilagi, e tutti pensano ‘oddio, dai, Michele’, ma aveva un piede rotto. E sapevamo che aveva un piede rotto ma non siamo riusciti a toglierlo dal campo in tempo. Poi entra Tommy Castello e si rompe la gamba, e Lovotti finisce in terza linea. Le cose continuano ad andare sempre peggio e mentalmente andiamo giù. Probabilmente contro l’Inghilterra non abbiamo giocato così male come suggerisce il punteggio. Per quanto riguarda le altre partite, io sono sempre stato molto fiducioso, ma la parte difficile è mantenere l’energia, non solo io ma tutti noi, giocatori e staff. Perché poi devi affrontare un mondo mediatico, dove tutto è immediato, e può essere dura.

Nel corso di questi tre anni l’Italia però ha sempre raggiunto, da un semplice punto di vista di risultato, meno di quello che ci si aspettava: la sconfitta con Tonga dopo la vittoria con gli Springboks nel 2016, la sconfitta nel primo test in Giappone a giugno, la sconfitta con la Francia all’Olimpico, quella con la Scozia nel Sei Nazioni dello scorso anno. Come si spiega? Si tratta quindi solamente di un aspetto psicologico? Di poca abitudine a vincere?

Da quando sono qui, quello di Tonga è stato il risultato più frustrante in assoluto. Se guardiamo la partita, avremmo dovuto essere sopra di 20 a fine primo tempo, dato quello che avevamo creato.
Come sempre, però, quando abbiamo vinto con il Sudafrica, invece di applaudire l’Italia, tutti hanno detto: il Sudafrica fa schifo.
Penso che stiamo arrivando al livello che desideriamo in termini di prestazione, quindi mettiamo per un attimo da parte la partita contro la Francia del Sei Nazioni e guardiamo a quelle passate. Il primo test in Giappone è una partita finita con un punteggio ravvicinato, contro una nazionale che ha ottenuto risultati clamorosi come la vittoria con il Sudafrica o il pareggio in Francia, entrambi in trasferta. Quindi sono una squadra che non è affatto male, a maggior ragione se poi gioca in casa. Tutti si aspettavano che avremmo vinto entrambe le partite in trasferta. Abbiamo giocato un ottimo secondo test, mentre nel primo, quando il punteggio era molto vicino, 20 a 17, è stato chiaro che chi avesse messo a segno una azione importante avrebbe cambiato in maniera decisiva l’energia della partita. Loro hanno segnato, il match è girato a loro favore e poi quindi hanno realizzato un’altra meta per il 34 a 17 finale. Con lo stesso punteggio abbiamo perso Francia-Italia nel Sei Nazioni dell’anno scorso. Segniamo una meta tecnica nel primo tempo da una maul. Siamo forse l’unica squadra al mondo che ha marcato una penalty try senza che agli avversari sia dato un cartellino giallo. Gli arbitri rivedono l’azione e dicono che non riescono a vedere chi abbia fatto crollare la maul. Io sì, però: si vedeva chiaramente il colpevole.
Dobbiamo andare a vedere quali sono i momenti durante le partite che cambiano l’inerzia al match, come un calcio di punizione per noi o contro di noi. Altro esempio: Twickenham, due anni fa, punteggio di 17 a 15. C’è un penalty in una mischia chiusa che è 50 e 50, viene fischiato a nostro sfavore, Danny Care gioca veloce e segna. Se quel penalty viene fischiato a nostro favore, siamo noi che andiamo nell’altra metà campo e mettiamo loro pressione.
Dobbiamo lavorare e crescere, metterci in condizione di affrontare diverse situazioni. In questo momento per noi essere in svantaggio non è un gran problema, possiamo rimontare. Non c’è nessuna forma di panico mentale. Il nostro prossimo passo è imparare a vincere e a gestire le situazioni in cui siamo davanti. D’altra parte quando perdi sempre le partite all’altissimo livello anche il tuo avversario, oltre a te, ha un approccio mentale diverso. Guarda il Galles di quest’anno: sanno come gestire qualsiasi tipo di partita. Prima partita del Sei Nazioni: sono sotto 16 a 0 dopo quaranta minuti, e sono sicuro che in tutti gli studi televisivi si sia parlato malissimo del Galles. E poi hanno vinto il Grande Slam.

Possiamo pensare di riuscire un giorno ad essere come questo Galles?

Arrivare a quel punto è un processo, noi lo stiamo affrontando. Prima di incominciare a lavorare qui ho parlato con Steve Hansen del suo periodo come allenatore del Galles, quindi con Eddie Jones del suo lavoro con il Giappone: entrambi mi hanno detto che la prima cosa da fare è assicurarsi di lavorare per costruire il sistema, mettere in piedi le giuste strutture per il futuro. Se sarà un’altra persona e non io ad avere un’ottima squadra in un sistema migliore francamente non è un problema per me, perché… [sbuffa, si volta un attimo a indicare col palmo della mano rivolto verso l’alto l’Arena di Verona che sovrasta Piazza Bra]…è incredibile, l’Italia è incredibile. Ma non abbiamo fatto le cose giuste in passato, non le abbiamo fatte. Le persone hanno lavorato duro, ma noi non siamo cambiati. Non siamo cambiati e abbiamo ancora bisogno di cambiare, anche se non ti dirò adesso che cosa, anche se sappiamo cosa dobbiamo fare. Ci saranno sempre lotte e discussioni, come in ogni altro paese, ma adesso abbiamo messo in piedi un percorso appropriato.

L’intervista esclusiva a Conor O’Shea continua domani, sempre su onrugby.it con il CT abbiamo parlato anche di temi tecnici, degli imminenti mondiali e del suo futuro dopo il Sei Nazioni 2020. 

Lorenzo Calamai

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