La Rugby World Cup e il (suo) futuro: intervista a Conor O’Shea

La seconda parte della lunga chiacchierata con il commissario tecnico della Nazionale, con vista sull’appuntamento iridato

Conor O’Shea – Ph. Sebastiano Pessina

Prosegue la nostra intervista con Conor O’Shea, CT della nazionale italiana. Se vi siete persi la prima parte, potete leggerla qui.

Verona – Una caratteristica della retorica di Conor O’Shea è l’onnipresenza del pronome noi. Un plurale che non è mai usato in maniera artificiosa, ma che comprende di volta in volta il soggetto multiplo a cui si riferiscono le sue affermazioni. E’ un noi la nazionale italiana, è un noi lo staff tecnico, è un noi la Federazione italiana ed è un noi il movimento ovale del nostro paese. E’ un noi, infine, quello che comprende tutto il mondo del rugby di cui O’Shea si onora di far parte.

Con le tue prime risposte hai un po’ anticipato alcune delle domande che volevo porti, a proposito dei cambiamenti nel sistema che hai promosso da quando sei qui..

Non io, non sono io. Kieran e Antonio stanno facendo un lavoro fantastico a Treviso con il Benetton, insieme a Marco [Bortolami], Fabio [Ongaro] e Ezio [Galon], e insieme al loro staff medico. Vogliamo sviluppare un ambiente simile alle Zebre, con il tempo.  Non ne abbiamo ancora le possibilità economiche, anche in questo caso sarà un processo di crescita e, come tutte le altre cose, non si risolverà tutto in un attimo come per magia.
Poi c’è il lavoro di Pete Atkinson sulla parte fisica con noi e con le franchigie. Senza dimenticare quello che fanno Daniele [Pacini], Franco [Ascione], Stephen [Aboud], Fabio [Roselli] con tutti i giovani. Tutti vogliamo la stessa cosa, ed è dura, perché la vorremmo tutti subito.

Hai toccato l’argomento delle limitazioni economiche del nostro movimento, uno degli ostacoli al suo sviluppo. E’ davvero possibile per le squadre Tier 1.5/2 salire il gradino che porta ad una piena competitività rispetto alle nazionali più grandi? A volte sembra che il rugby non sia tanto un gioco globale, ma un po’ sparso a macchia di leopardo, e forse il problema della sua crescita è dovuto alla struttura del sistema, che tende a rendere protagoniste sempre le stesse 8/10 squadre.

Io penso che il rugby sia in effetti un gioco globale, ma in generale è vero: sono protagoniste sempre le stesse squadre. Ogni volta che mi parlano della concorrenza fra noi e la Georgia, rispondo che non è quello il punto. Come movimento mondiale, qual è il nostro compito? E’ fare sì che non ci siano solo 4 squadre che possono vincere la Rugby World Cup.
Il pubblico vuole vedere partite come Italia-Francia, Italia-Irlanda, dove c’è vera competizione, non partite dal risultato scontato. Dobbiamo sviluppare il gioco nel suo complesso e assicurarci che squadre come Tonga, Samoa, Fiji, Stati Uniti, Canada, Namibia, noi, continuino a crescere. Siamo tutte squadre in via di sviluppo.
Ho letto l’altro giorno che i Saracens hanno appianato un debito da oltre 45 milioni di sterline da un giorno all’altro, semplicemente staccando un assegno. Bella vita: possono aggiungere personale, fare un viaggio di team building, e un sacco di belle cose.

Niente di tutto questo per il movimento italiano?

La nostra situazione è diversa. Noi abbiamo un ottimo gruppo di persone. Dobbiamo migliorare, dobbiamo rafforzare la nostra struttura, dobbiamo offrire maggiore supporto ai giocatori, continueremo a provare a farlo.
Certamente se riuscissimo ad avere qualche risorsa economica in più sarebbe un vantaggio, e sapremmo come utilizzarla, ma la priorità adesso è continuare a supportare le nostre franchigie. Come ho già detto, Kieran e Antonio con il Benetton hanno fatto un lavoro fantastico, e adesso dobbiamo aiutare Michael [Bradley], Tronky [Alessandro Troncon] e Carlo [Orlandi]. L’anno prossimo avranno a disposizione un maggior numero di giocatori, per cominciare. So che alle Zebre mancano giocatori, sono stato anche alla partita che hanno perso 5 a 6 contro il Connacht, ma avrebbero dovuto vincere. Hanno giocato spesso in maniera brillante, ma hanno perso altrettanto spesso. Hanno ceduto mentalmente contro il Benetton nel primo derby, una partita che avrebbero potuto portare a casa, e hanno perso più o meno nella stessa maniera contro i Cheetahs a Parma, ma poi vai a vedere la lista degli indisponibili e ti rendi conto di quanto difficile sia stata la loro stagione, compromessa dagli infortuni. Il prossimo anno, però, sarà diverso. Avranno una squadra davvero buona, con tanti giovani forti. E allora vale la pena di farsi qualche domanda. Ad esempio: l’Italia può essere come l’Argentina? Facilmente. Facilmente, davvero, con il tipo di giocatori che abbiamo e che avremo. E questo è un gran passo avanti, dobbiamo solo continuare a spingere.

Di solito, dall’esterno, tutti sono in grado di vedere e capire il lavoro da head coach che implica selezionare i giocatori, gestire il loro impiego, supervisionare gli allenamenti, scegliere con lo staff la formazione titolare. Qual è l’altra parte del tuo lavoro, che magari non emerge?

[Ride ironico] Stare seduto qui con te a bere caffè!
Il compito più difficile è mantenere la barra dritta in termini di fiducia e di prospettiva in ciò che stiamo facendo tutti, perché è dura senza vincere. E’ maledettamente facile quando devi solo giudicare le cose da fuori, mentre i tempi duri ti mettono davvero alla prova. E’ complicato avere a che fare con i media, perché condizionano buona parte dei processi mentali delle persone a proposito di cosa sia un sistema e spingono a una incomprensione del punto a cui siamo oggi come movimento.

Quanto è ascoltata la tua voce nel cambiamento e nello sviluppo del nostro sistema?

Non lo so. Quello che so è che io parlo con il maggior numero di persone possibili, cerco di offrire più consigli possibile, ma ognuno ha il proprio ruolo all’interno del sistema. Quindi c’è il lavoro che stanno facendo Franco [Ascione], Fabio [Roselli], Steve [Aboud]. Sono loro le persone fondamentali che si occupano di dare continuità alle cose nel lungo termine e di portare avanti il sistema tutto il tempo. La squadra nazionale è solo la punta dell’iceberg, quella che tutti vedono, ma non è l’unica cosa che c’è. C’è, ad esempio, quello che ha fatto la nazionale femminile: è incredibile ciò che hanno ottenuto quest’anno. O anche la under 20, la cui analisi è stata un po’ fuori contesto quest’anno, perché c’erano davvero tantissimi under 19 in rosa.

Già, ed è cambiata anche l’opposizione che si trovavano davanti: Galles e Irlanda non erano così forti in quella categoria lo scorso anno.

Perché anche loro, come noi, costruiscono per cicli. I cicli sono sfalsati, per cui altre nazionali sono sempre un anno avanti rispetto a noi, e poi li raggiungiamo.Vogliamo comparare poi il fatto che la maggior parte dei nostri ragazzi under 19 sono ancora a scuola mentre gli altri sono già tutti fuori dal sistema scolastico?
Vedremo il prossimo anno. Stiamo comunque lavorando tutti insieme, nella stessa direzione, e quindi la mia attenzione adesso non è tanto su questo, quanto sulla Rugby World Cup.

E allora parliamo di World Cup: è notizia fresca quella del nuovo infortunio e conseguente operazione di Marcello Violi. Pensi che sia fuori dalla corsa per il mondiale?

No, è solo una lunghissima preseason per lui. Ho parlato con Marcello, e lui è ovviamente distrutto. Ma quando cominceremo la preparazione al mondiale in giugno-luglio, starà già facendo un allenamento differenziato. Adesso siamo ad aprile: quindi ha a disposizione questo mese, maggio, giugno, luglio e agosto per recuperare. Con settembre fanno sei mesi dall’infortunio, e starà bene. Sarà una sfida mentale, ma può farsi trovare pronto. A giugno non potrà fare contatto, ma potrà passare il pallone? Sì: potrà fare passaggi, potrà fare calci nel box, esercizi di skills, pesi, rinforzare la spalla per farla tornare a posto. Poi magari alla fine della preparazione, fra la fine di agosto e i primi giorni di settembre, se sarà selezionato e pronto, potrà giocare un paio di partite per reintegrarsi nel gruppo.
Lo stesso può valere per Tommy Castello. A ogni inizio di stagione ci sono giocatori in diverse condizioni: ci sono quelli che sono perfettamente sani, quelli che hanno finito la stagione precedente con qualche acciacco, quelli che la hanno finita infortunati. In questo caso è lo stesso.
Certo, non è facile per i giocatori dal punto di vista psicologico. A Marcello ho detto: “hey, prendila come se fossimo in preseason”. Lo stesso ho detto a Ghiraldini: puoi lanciare? Sì, puoi lanciare, puoi lavorarci durante il recupero.
Matteo Minozzi rientrerà prima rispetto agli altri infortunati. Ma avremo, toccando ferro, 25/30 giocatori in condizioni perfette, anche se non voglio fare nomi adesso perché non sarebbe corretto e perché non c’è ancora niente di definitivo. Con questo gruppo potremo fare una preparazione molto buona, magari con Ghiraldini ancora 15 giorni sulla cyclette a rimettersi perfettamente in forma. Ce la può fare ad esserci, anche per lui saranno passati sei mesi dall’operazione.
Selezioneremo una squadra di 42 giocatori a fine del mese. Chi gioca nel campionato inglese avrà un break dopo il campionato e arriverà più tardi, mentre Sergio in Francia finirà intorno a metà giugno e arriverà con noi a luglio. Spero di avere i ragazzi del Benetton sin dall’inizio, ma se al nostro primo ritiro avrò solo i giocatori delle Zebre sarò contento lo stesso.

Negli ultimi tre anni, i tuoi, la nazionale italiana ha cambiato tantissimo in termini di giocatori messi in campo. A me sembra che ci sia stata una vera e propria cesura dopo il Sei Nazioni del 2017. Quanto ha inciso questo sulla costruzione del gruppo per la RWC?

No, questo non è vero, non c’è stato un taglio netto. È solo quello che succede in ogni evoluzione. Si comincia con un gruppo di giocatori, poi magari c’è qualcuno che si avvia al finale di carriera. Se penso ad atleti come Simone Favaro, un giocatore che per certi versi mi piacerebbe fosse ancora con noi, adoravo vederlo giocare ed è stato una delle ragioni per cui, all’inizio, ho voluto venire in Italia. Ma è così, i giocatori evolvono. Guarda il lavoro che ha fatto Marco Bortolami su alcuni suoi giocatori: il Federico Ruzza che è venuto in tour alle Fiji non era il giocatore che è adesso. E non è un trucco, non è magia, si chiama tempo. Identifichi dei giocatori giovani, magari fanno una grandissima prima stagione, poi imparano che gli avversari si adattano, perché capiscono che contro di te è efficace un chop tackle piuttosto che un placcaggio alto, o perché magari realizzano che esci sempre dal frontale col piede sinistro. E all’inizio ti riesce tutto, fai un sacco di breaks, e poi all’improvviso devi imparare qualcosa di nuovo. In questo, Matteo Minozzi è differente da tutti gli altri perché è capace di fare lo step con entrambi i piedi, e rimane imprevedibile.
Quindi il cambiamento della squadra è una cosa naturale, continuerà ad accadere, ci sono un sacco di giovani che spingeranno per esserci già a questa coppa del mondo. Noi abbiamo chiari più o meno 25/26 nomi fino ad adesso, ci mancano gli ultimi quattro o cinque, e dobbiamo decidere come dividere la squadra: se portare 18 avanti e 13 trequarti, o 17 avanti e 14 trequarti. Questo potrebbe avere a che fare con gli infortuni, con il recupero di Leo [Ghiraldini]. Decisiva sarà la capacità di essere multitasking, quindi di poter essere impiegati in più di un ruolo: se puoi essere sia ala che centro, se puoi giocare estremo e mediano di apertura. Sono queste le discussioni che avremo fra noi nello staff.
Penso che sia un momento piuttosto eccitante da vivere per il rugby italiano. Però dobbiamo essere al tempo stesso coscienti di quanto sia incredibilmente duro raggiungere l’altissimo livello, il top level. Noi in questo momento stiamo solo risalendo fino al punto in cui possiamo provare a raggiungere quel top level.

In questo Sei Nazioni abbiamo assistito a un netto miglioramento della difesa e della rimessa laterale, due punti deboli delle precedenti uscite dell’Italia. Nel Sei Nazioni 2018 abbiamo invece segnato il maggior numero di mete di sempre nel torneo, mostrando notevoli miglioramenti in attacco. Sembra però che non riusciamo mai a portare tutti questi singoli miglioramenti insieme, come se fosse una coperta corta e desse frutti solamente il lavoro che facciamo nel breve termine.

Beh, ecco l’obiettivo per la coppa del mondo. Però non è solo una questione di mettere insieme le componenti o di tempo da passare insieme. In una partita succedono cose. Alcune di queste cose cambiano l’andamento della partita. Quando parlo di energia si tratta proprio questo. Torniamo per un attimo alle partite di cui abbiamo parlato prima, prendiamo la partita con il Galles. Sul 12 a 10, in una rimessa laterale a metà campo, Sergio fa un brutto passaggio a Gullo Palazzani, mischia per loro. Da quella mischia segnano la meta che rompe la partita. E qui non si tratta di una decisione arbitrale contraria, non è qualcosa che hanno fatto gli avversari, è una nostra cattiva esecuzione. Se riusciamo ad eseguire adeguatamente, non dico che andremo a segnare, ma siamo noi che guadagniamo energia e mettiamo loro sotto pressione.

Quella partita è stata proprio questo: qualche errore di troppo che ci è costato il risultato.

Sì, è proprio così: non è qualcosa che gli altri hanno fatto, siamo stati noi. C’è un calcio di punizione, sempre nelle fasi calde della partita, contro Sebastian Negri, poco al di là della metà campo. Negri prende un buco interno, ma poi gli viene fischiato un tenuto a terra. Ora, al di là del fatto che avrebbero potuto esserci due calci di punizione a nostro favore in quella singola azione per un fuorigioco gallese e perché il placcatore non rilascia mai il placcato, noi dobbiamo occuparci di ciò che è in nostro controllo, ovvero la reattività dei sostegni al portatore che arrivano in ritardo. È così, queste partite sono fatte di piccoli momenti. Anche quella con l’Irlanda, anche quella con la Francia.
Tu hai parlato di attacco: se contro la Francia segniamo prima della fine del primo tempo, l’energia della partita cambia, la nostra positività cambia, se incominciamo a cogliere le occasioni l’altra squadra incomincia ad inseguire la partita. E questo è quello che non siamo ancora stati in grado di metterci nella posizione di poter fare: non siamo stati in grado di darci questa iniezione definitiva di energia, che ci permette di dire ‘ragazzi, siamo in controllo della partita’.
Quindi tu mi parli del nostro attacco rispetto allo scorso anno: c’è qualcosa di diverso che avremmo dovuto fare? Tolta la partita con l’Inghilterra abbiamo segnato con continuità. Inoltre, il numero di mete non è il punto centrale della questione: il Galles ne ha segnate il minor numero nel Sei Nazioni, ma ha avuto la miglior difesa e il miglior giocatore e ha vinto il torneo.

Penso però che sia chiaro che ci sia stato un lavoro specifico su difesa e rimessa laterale prima del Sei Nazioni, per migliorare quei due aspetti

Ci sono modi diversi di guardare a questa cosa. Per quanto riguarda la rimessa laterale, ad esempio: in novembre abbiamo deciso di optare per dei lanci più rischiosi, che però ci avrebbero dato palloni di maggiore qualità in attacco. È più rischioso nel senso che ci sono più probabilità di cedere il possesso all’avversario, ma puoi avere d’altro canto più possibilità per segnare.
Più giochiamo contro squadre migliori, mettendoci in questo tipo di condizioni, più guadagniamo confidenza. Per questo è importante quello che sta facendo il Benetton in questa stagione, vincendo tante partite. I ragazzi poi vengono in nazionale e sanno che ci stiamo avvicinando agli avversari, e sanno che il livello è più alto.
Ciò che mi dà fiducia, che mi fa credere che possiamo fare qualcosa di speciale alla Rugby World Cup è che sulla singola occasione, se la nostra squadra riesce a mettere tutti i pezzi insieme, siamo un cavolo di mal di testa per chiunque. Ma prima dobbiamo fare il nostro lavoro: prepararci bene, battere Namibia e Canada e quindi pensare al Sudafrica.

Quindi sei piuttosto fiducioso sulle nostre possibilità di passare il turno?

Sono positivo. D’altronde, se non fossi positivo mi sarei già arreso a quest’ora. Credo che abbiamo un gruppo davvero talentuoso. Abbiamo fatto un sacco di lavoro e ora, sia in Italia che all’estero, tutti sanno che c’è qualcosa che sta rinascendo nel rugby italiano. Dovunque tu vada non ci sono più quelle pacche sulle spalle di consolazione, ma il sincero riconoscimento del fatto che abbiamo un buon gruppo di giocatori. Adesso dobbiamo salire il prossimo gradino, ed è un gradino duro da scalare.

Mi sembra che anche sulla stampa estera abbiano cominciato a prenderci maggiormente sul serio, con qualche episodica eccezione.

Ci saranno sempre persone nei media che cercheranno il titolo sensazionalistico, o che ci criticheranno duramente per attirare attenzione. È questo il mondo nel quale viviamo. Ma i fatti si desumono dal guardare il modo in cui la nostra squadra ha cominciato a giocare su base regolare, il livello atletico, l’abilità di affrontare la partita, di tenere il pallone nei multifase. Se non vado errato siamo la squadra che ha segnato il maggior numero di mete attraverso dei multifase in questo Sei Nazioni, che è una cosa che dimostra un alto livello di skills e fitness. Mantenere il possesso su più fasi contro le migliori squadre al mondo è una cosa per niente facile.

E’ vero quello che dici, ma il mantenimento del possesso durante i multifase è anche uno dei nostri problemi. Se abbiamo palloni veloci e di qualità riusciamo a fare male. Un esempio è la meta di Braam Steyn contro il Galles: rimessa laterale, 6 fasi rapide e in avanzamento, cinque punti. Se però gli avversari riescono a rallentare il nostro possesso, allora perdiamo quasi subito il pallone, come è successo in quella stessa partita.

Sì, è vero, con palla lenta le cose sono diverse. Dopo la partita contro il Galles abbiamo chiesto ai giocatori di preparare una presentazione, da esporre in riunione, sul processo di creazione di un pallone veloce. Di solito quando si pensa a questo argomento tutti pensano al breakdown, ma tutto incomincia precedentemente: prima di tutto è fondamentale essere subito in posizione per giocare il possesso, e poi creare opzioni multiple ponendo dei quesiti alla difesa. Se è chiaro chi sarà il portatore del pallone, diventa un bersaglio facile; se ci sono tre o quattro altri giocatori, tutti con plausibili linee di corsa e possibili opzioni, allora è diverso. Un sacco di mete sono segnate non tanto dal giocatore che effettivamente arriva oltre la linea, ma da coloro che si muovono senza il pallone. Quindi i giocatori devono valutare: sono arrivato il prima possibile in posizione? C’erano opzioni? Ho vinto la collisione? Ho lavorato a terra? E solo dopo possiamo parlare del lavoro del giocatore in sostegno. Se queste quattro cose sono fatte bene, allora il suo lavoro sarà molto più facile.
Contro il Galles, fra l’altro, i loro placcatori hanno ripetutamente omesso di rilasciare il placcato, che è una cosa molto gallese, ed anche per questo abbiamo avuto molte difficoltà sul punto d’incontro.

Ultima domanda: quali sono i tuoi progetti dopo la Rugby World Cup?

Non lo so. Vorremmo continuare ad andare avanti così per un altro po’ di anni, ma quello che ho già detto diverse volte è cosa deve succedere perché accada. Le persone potrebbero essere stufe della mia positività, potrebbero essere stufe di non vincere partite. Tutto quello che voglio fare è ciò che è giusto per l’Italia. Con la squadra vogliamo provare a raggiungere il picco massimo alla World Cup, nella quale penso che questo gruppo possa dare risultati. Io credo che questo gruppo possa essere all’altezza in ogni occasione. Poi ci sarà il Sei Nazioni del prossimo anno, e quindi vedremo.
Tutto quello che so è che qualunque cosa accada dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo, seguendo questa strada. Questo non per dire che io ho ragione, ma perché so quello che abbiamo fatto, non io, ma tutti coloro che in questo sistema stanno adesso credendo e lavorando per la cosa giusta. Se ci sarò io, bene. Se si tratta invece di tornare qui a bere una birra con voi e guardare l’Italia vincere, ne sarò felice. A me importa del rugby italiano. E come sempre in questo sport si fanno amicizie, si incontrano persone e… [indica di nuovo la piazza alle sue spalle, l’ambiente intorno a sé] tutto questo è piuttosto speciale.

La nostra intervista a Conor O’Shea è stata realizzata prima dell’arrivo della notizia inerente a Franco Smith e del potenziamento dello staff azzurro. Sebbene non ci sia ancora niente di ufficiale, OnRugby può confermare che fra l’attuale CT della nazionale italiana e la Federazione le probabilità di rinnovo sono molto alte e potrebbero esserci novità in merito prima della prossima Rugby World Cup.

Lorenzo Calamai

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