Uno dei giocatori più forti, amati e indimenticabili nella storia del rugby, per tanti motivi
Jonny Wilkinson è stato uno dei giocatori più amati e apprezzati nel mondo del rugby. A 40 anni, il suo nome unisce ancora come pochi altri. Ovunque sia andato e qualsiasi maglia abbia indossato, il suo ricordo non può che essere positivo. Un esempio su tutti: al termine della sua ultima partita in carriera i tifosi del Tolone intonarono ‘God Save The Queen’ a Parigi, dopo che l’apertura inglese aveva segnato quindici punti decisivi nella finale del Top 14.
L’iconicità di Jonny Wilkinson è andata anche oltre le rivalità, sebbene il numero 10 abbia creato non pochi dispiaceri a tante squadre e nazionali in tutto il mondo nel corso degli anni. Ha vinto una Rugby World Cup, quattro Sei Nazioni, una Premiership, due Heineken Cup e un Top 14; è uno dei tre giocatori al mondo ad aver segnato più di 1000 punti a livello internazionale, ha segnato più punti di tutti ai Mondiali (277) e ha segnato 36 drop in 97 cap, più di tutti naturalmente.
Wilkinson ha tagliato una quantità tale di traguardi irripetibili per un singolo giocatore da non dover rimpiangere nemmeno i tanti infortuni della carriera, soprattutto tra la fine del 2003 e l’inizio del 2007, per una lista davvero corposa di problemi fisici. In molti dubitavano sulla longevità della sua carriera nel momento di massima preoccupazione, ma il simbolo della vittoria iridata inglese avrebbe smentito tutti nel corso degli anni, appendendo gli scarpini solo a 35 anni e dopo aver giocato 141 partite in 5 anni. Come se gli infortuni lo avessero fortificato, invece di inchiodarlo a un’amara realtà.
Wilkinson è universalmente riconosciuto come uno dei migliori giocatori di sempre,
ma i più attenti avranno notato che non è solo per i suoi piedi d’oro. Era un giocatore duro, un difensore eccezionale e un placcatore temibile, nonostante gli 89kg distribuiti su 179cm. Un fisico modesto, ma solo nei numeri.
Nonostante abbia saltato tante partite proprio nel momento in cui era entrato nella storia del gioco, per Wilkinson non esistono i ‘what if’. È riuscito ugualmente a non avere alcun rimpianto e a diventare un modello da seguire per le generazioni future, per la dedizione negli allenamenti e l’approccio psicologico allo sport. Era ossessionato dalla perfezione: come ha raccontato Paul Eddison in un tributo per i suoi 40 anni, alla fine di ogni sessione di allenamento Wilko doveva centrare i pali con sei piazzati consecutivi, e a ogni errore avrebbe dovuto iniziare da capo.
Il connubio tra un raro talento naturale, la maniacalità nel lavoro su se stessi e un atteggiamento sempre positivo (a prescindere dagli infortuni) ha creato Jonny Wilkinson. La sua legacy è enorme, in campo e fuori: raccoglierla è fuori dalla portata di chiunque, ma nel frattempo ha forgiato e forgerà ancora tanti giocatori. Da quest’altra parte, invece, possiamo solo ringraziare di aver vissuto nella sua stessa epoca. Buon compleanno, Jonny.
Daniele Pansardi
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