Un’altra opportunità per calarci ancor di più nella cultura del Sol Levante, a poco più di tre mesi dall’inizio del torneo iridato
Il Giappone è un Paese davvero particolare e con una cultura unica al mondo. Dal nostro punto di vista molte delle abitudini e prassi giapponesi appaiono come delle vere e proprie stranezze, ed in questo contesto di stranezze anche il nostro amato mondo ovale non ne esce immune. Ecco qui una piccola lista di stranezze del rugby giapponese:
1. Lacrime
Per i giapponesi la sconfitta, in qualsiasi ambito, è davvero difficile da digerire. Specialmente a livello scolastico, dove alla delusione personale e di squadra si somma anche il rammarico per non aver dato abbastanza per la propria scuola. Dopo una sconfitta è quasi scontato vedere molti giocatori piangere a terra e alcuni di loro sono assolutamente inconsolabili.
2. Spirito giapponese
Il rugby è sacrificio, sprezzo del dolore e del pericolo. I giapponesi hanno un nome per definire quell’attitudine necessaria ad ogni buon rugbista degno di questo nome 侍魂 ( Samurai Damashii) ovvero spirito Samurai. Questo nome deriva da un termine antico della lingua giapponese 大和魂 (Yamato damashii, dove Yamato è l’antico nome delle prime provincie sotto il controllo dell’imperatore giapponese)e sta ad indicare un concetto spirituale originario del Giappone antico rappresentante l’orgoglio e la persistenza del popolo del Giappone di fronte ad un grave pericolo o una grande sfida.
3. Divinità del rugby
Ad Osaka, città molto legata al rugby, nelle vicinanze dello stadio Hanazono dove si tiene la fase finale del campionato nazionale delle scuole superiori e dove l’Italia affronterà la Namibia alla prossima Rugby World Cup, si trova un tempio shinto-buddista, all’apparenza come tanti altri. In realtà il tempio Kasuga jinja di HigashiOsaka (zona est della città) è un piccolo tempio, con la classica porta shintoista all’entrata, gli Shishi (i leoni-demoni guardiani del buddismo, creature mitologiche con il potere di scacciare gli spiriti malvagi ), e al centro il classico altare dove risiede la divinità, fin qui tutto normale. La particolarità è che la divinità in questione ha il preciso compito di proteggere i rugbisti della squadra di Osaka dei Kintetsu Liners militante in Top League e di tutti i rugbisti che passano di lì a rendere omaggio e chiedere protezione. Non è quindi raro vedere a questo tempio giocatori sia professionisti che studenti, ma anche semplici sostenitori, venire a pregare per una stagione sportiva positiva e priva di infortuni. Gli elementi classici che si trovano nei templi giapponesi, qui sono arricchiti dalla presenza di incisioni di palle da rugby, grossi palloni in legno e vari altri dettagli a tema rugby.
4. World rugby metamen
Forse non tutti lo sanno, ma il giocatore con più mete segnate a livello internazionale non è uno degli altisonanti nomi All Blacks, Springboks o chi per loro, bensì l’ex ala giapponese Daisuke Ohata (1996-2006), che ha messo a referto ben 69 mete in sole 58 partite con la maglia dei Brave Blossoms, con una percentuale di 1,190 mete per cap. In precedenza il record era detenuto dall’australiano, vecchia conoscenza italiana, David Campese (64 mete in 101 presenze, 0,634 mete per cap) che è poi stato superato anche dal sudafricano Bryan Habana (67 mete in 124 presenze con una media di 0,540 mete per cap).
Tuttavia, il fatto che solo un quarto delle mete di Ohata siano state segnate contro nazionali di primo livello causa controversie tra gli addetti ai lavori. In 2 partite contro Taipei e Hong Kong mise a segno rispettivamente 8 e 6 mete.
5. Niente stipendio
I giocatori della nazionale giapponese non ricevono compensi per rappresentare il loro Paese nelle partite internazionali, soltanto un simbolico rimborso spese di 2000 Yen al giorno, ovvero 15 euro circa. La maggioranza dei giocatori che compongono la rosa sono considerabili come amatori o al massimo semiprofessionisti. Si tratta di giocatori della Top League che prima di tutto, però, sono impiegati delle grandi aziende di cui fanno parte e, oltre a questo, giocano nella squadra di rugby aziendale, come spiegato in altri articoli. Il loro stipendio è dunque soltanto quello che ricevono dalla loro azienda.
Anche per quanto riguarda i pochi giocatori professionisti a pieno titolo, ovvero gli stranieri equiparati, semplicemente non vengono pagati per indossare la maglia della nazionale. Anche per loro lo stipendio arriva esclusivamente dal club-azienda, e solitamente è più alto di quello dei giapponesi semiprofessionisti. I giocatori della nazionale giocano per l’onore di rappresentare il Giappone e per la voglia di giocare al livello più alto possibile. Questo è un sistema che può chiaramente funzionare solo in Giappone, visto il fatto che gli stipendi aziendali sono molto alti e il fatto che nella cultura giapponese c’è il concetto di lavoro per la vita. Ciò significa che questi giocatori, una volta smessa l’attività sportiva, conserveranno il loro posto in azienda come semplici impiegati fino alla pensione, senza dover affrontare nessun genere di problema economico e senza la necessità di doversi creare un nuovo futuro al di fuori dello sport.
6. Autocontrollo
Durante una partita di rugby, specialmente in quelle dove non sono presenti gli occhi indiscreti delle telecamere, uno o anche due scambi di opinioni più o meno amichevoli sono parte integrante del gioco, un po’ come il terzo tempo, ma non in Giappone. Nel rugby nipponico non vedrete mai nemmeno un piccolo accenno di rissa. Questo è dovuto alla cultura giapponese che dà grandissima importanza all’autocontrollo che ognuno deve saper avere in qualsiasi momento.
Una rissa durante un’attività sportiva sarebbe veramente mal digerita, come accadde negli anni 70. In quegli anni si giocò una partita amichevole tra un reparto dell’esercito di autodifesa giapponese e un reparto della marina, in questa partita ci fu una rissa memorabile, ma fu probabilmente anche l’ultima. Membri dell’esercito e della marina che si picchiano durante una partita, durante anni in cui le forze armate stavano provando a riconquistare le simpatie dell’opinione pubblica, niente di più disonorevole per gli amici giapponesi. A tutti i giocatori in campo fu vietato di giocare a rugby con le rappresentative dell’esercito e della marina a vita, e i comandanti dei reparti furono addirittura sollevati dagli incarichi di comando.
7. Quantità e intensità
Gli allenamenti di rugby in Giappone sono sempre molto lunghi, anche più di 3 ore a seduta, e durante tutta la durata dell’allenamento si fa tutto al 100%. Concetti come fare una partitina a rugby touch per riscaldarsi o fare una partitella di allenamento a gioco controllato semplicemente non esistono, a nessun livello. ciò è probabilmente possibile anche per via del fatto che in genere i campionati nipponici non sono lunghi e carichi di impegni come quelli europei.
8. Anime e manga
Per chi non avesse familiarità con questi due termini, stiamo parlando di cartoni animati e fumetti giapponesi. Tutti sappiamo la grande cultura e passione che molti giapponesi hanno in questo genere di cose, ed in passato anime e manga hanno contribuito sensibilmente alla diffusione di alcuni sport nel paese del Sol Levante, uno su tutti il calcio, che qui è ben distante dall’essere lo sport nazionale o avere lo stesso seguito e fanatismo che abbiamo in Europa.
Ai tempi dell’uscita del manga “Holly & Benji”, tuttavia, ci fu un grande aumento di interesse verso questo sport. Nel 2012 è uscito il primo manga, e nel 2017 il suo adattamento a cartone, legato al mondo del rugby, ed ha avuto un buon seguito. L’opera si chiama “All Out” ed è ancora in corso. Tratta la storia di una squadra senza speranze di una scuola superiore, che tenta in tutti i modi di migliorarsi e sogna di partecipare alle fasi finali del campionato studentesco che si svolgono annualmente allo stadio Hanazono di Osaka. L’autore illustra la vita da studente adolescente che fa sport in Giappone, curandosi di spiegare ruoli e regole del gioco, al chiaro scopo di avvicinare più gente possibile al nostro sport in vista della Coppa del Mondo.
9. Sicurezza
I giapponesi sono sempre molto attenti e ligi quando si parla di sicurezza, in ogni attività. Per questo motivo in tutti i campionati scolastici è obbligatorio l’utilizzo del caschetto protettivo, indipendentemente dal ruolo in cui si gioca. La possibilità di obbligare i ragazzi ad indossare i caschetti di tanto in tanto è dibattuta anche ad altre latitudini, ma la loro efficacia in situazioni di concussion è molto dubbia.
Roberto Neri
Per approfondire:
- Rugby World Cup 2019, destinazione Giappone
- Le città e gli stadi della RWC 2019 – Sapporo e Kamaishi
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