Addio a James Small, lo Springbok che marcò Jonah Lomu

A soli 50 anni se ne va una delle leggende della Rugby World Cup 1995

ph. South African Rugby Union Official Website

Johannesburg, Ellis Park, 24 giugno 1995: da una parte Jonah Lomu, l’arma letale degli All Blacks reduce da una delle più memorabili prestazioni della storia, le quattro mete segnate nella semifinale contro l’Inghilterra; dall’altra James Small, che a malapena arrivava a 90 chili di peso e che era il ragazzaccio di quella squadra, destinata a diventare la più famosa nazionale sudafricana di sempre e uno dei simboli dell’importanza dello sport nella storia.

James Small, con l’aiuto dei compagni, riuscì a contenere Lomu in quella partita, la finale della Rugby World Cup che gli Springboks avrebbero poi vinto grazie soprattutto al piede di Joel Stransky. Una vittoria fondamentale nel lanciare verso una nuova era il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela dopo i giorni bui dell’apartheid.

Oggi, Small è deceduto a Città del Capo, all’età di 50 anni. Secondo le prime notizie, per il momento non confermate, sarebbe stato colpito da infarto.

La notizia della sua morte è stata confermata dalla madre e riportata da tutti i principali siti d’informazione sudafricani. Small è il terzo membro degli Springboks del ’95 ad essere deceduto: prima di lui il terza linea Ruben Kruger, morto per un tumore al cervello nel 2010, e il mediano di mischia Joost van der Westhuizen, affetto da SLA e morto nel 2017.

Nella sua carriera Small ha giocato 47 volte per il Sudafrica, segnando 20 mete. Un’ala prolifica che giocò per i Lions del Traansval, per Western Province e per gli Sharks, ma che è rimasta nella storia del rugby per la sua grande performance difensiva nella finale del 1995.

In quella selezione, Small era noto per essere il bad boy, solito prendere a male parole e insulti gli avversari che si trovava di fronte. E’ stato il primo Springbok ad essere espulso in un test match, e Chester Williams lo ha apertamente accusato di avergli rivolto insulti razzisti nella sua biografia, riferendosi ai duelli dei due nel rugby domestico sudafricano.

Eppure James Small fu anche colui che si commosse durante la visita a Robben Island, dove Nelson Mandela era stato imprigionato, ed era uno dei più emozionati e convinti interpreti di Nkosi sikelel’i Afrika, l’inno della Rainbow Nation, nato all’indomani dell’apartheid.

Lo ricorda così Will Carlin in Ama il tuo nemico, il libro sugli Springboks del 1995 da cui è stato tratto il film Invictus: “James Small, che faceva il modello di vestiti quando non era impegnato con il rugby, era il ragazzaccio fra di loro, quello che era stato cacciato dal tour nel Regno Unito dell’anno precedente a causa di una rissa in un bar. Nonostante questo […] nessuno cantava l’inno col suo trasporto.”

“Il tifoso sudafricano medio, consapevole dei suoi problemi fuori dal campo, avrebbe faticato a crederci, ma non i suoi compagni di squadra. Tutto sapevano che lui capiva di aver vissuto pericolosamente vicino al limite, che se non fosse stato per la parziale valvola di sfogo fornita dal rugby, la sua personalità violenta e senza controllo lo avrebbe portato dietro le sbarre. Lui stesso era il primo ad ammetterlo. ‘Sono così fortunato’ diceva. ‘Ero un duro, potevo finire in prigione. Andavo in quei club di Johannesburg tardi la notte. Potevo prendermi una pallottola’.”

“Ma c’era un’altra ragione per cui si emozionava così tanto quando cominciava a cantare l’inno. Sapeva cosa significava sentirsi marginalizzato. L’apartheid esisteva anche nel rugby, fra i bianchi. ‘So cosa voleva dire essere dalla parte di chi le prendeva’ diceva. ‘Ero un inglese che giocava il gioco degli olandesi. Quando ho cominciato a giocare a livello provinciale sono stato fatto fuori dai giocatori Afrikaner. Non ero il benvenuto né fra i miei compagni né per gli avversari. I giocatori della mia stessa squadra cercavano di far giocare i loro compagni Afrikaner al posto mio. Mi hanno ostacizzato, mi hanno picchiato duramente. Alla mia matricola negli Springboks mi hanno conciato talmente male che mio padre voleva denunciarli alla polizia. Il punto era che, per loro, il rugby era un gioco Afrikaans e non c’era spazio per qualcuno che fosse un discendente degli inglesi’.”

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