La storia della seconda linea delle Ringhio, dalla guerra in Serbia ai campi di Monza, passando per la prestigiosa laurea al Politecnico di Milano
La storia di Natalija Pavlovic, raggiante seconda linea del Rugby Monza, inizia a Zemun Polje, sobborgo a nord di Belgrado, agli albori degli anni ’90. Una decade, l’ultima prima del nuovo millennio, che ha segnato indelebilmente i paesi balcanici, a causa di un sanguinoso conflitto armato, i cui spettri ancora aleggiano nell’anima di chi l’ha vissuto.
L’infanzia della ragazza, oggi di stanza nel milanese, tuttavia, nonostante sia lontana dai fasti materiali dei suoi coetanei al di là dell’adriatico, è spensierata e scorre senza particolari sussulti sino al marzo del 1999, quando viene scossa, all’improvviso, dalla guerra. “Il giorno in cui, ad inizio marzo, mi dissero che la scuola era finita, con l’ingenuità di una bimba di 7 anni, rimasi positivamente sorpresa. Pensai a quanto sarebbero state lunghe le vacanze, compiacendomi. Compresi molto presto sulla mia pelle, però, il reale motivo di quel repentino ‘rompete le righe'”, esordisce, raccontandosi ad OnRugby – con un sorriso contagioso -, Natalija.
Falliti i tentativi per risolvere diplomaticamente la questione Kosovara, il 24 marzo ’99, la NATO inizia a bombardare la Serbia. Attacchi aerei che perdurano, costanti, sino alla metà di giugno. Tre, lunghissimi, mesi in cui la giovane Nat cresce in fretta, ed entra in contatto per la prima volta, inconsapevolmente, con i valori manifesto della palla ovale. “In certe situazioni, lo spirito di comunità esce in tutta la sua forza. Si creano affinità e simbiosi senza che ci sia bisogno di troppe parole. Alle volte bastava uno sguardo, tra persone dello stesso palazzo, per capire le necessità dell’altro, per fare il passo in più in suo aiuto. Sostegno che puntualmente veniva ricambiato alla prima occasione utile e che ha permesso a tutti noi di avanzare, sempre a testa alta, sino alla fine di quel periodo buio”, racconta la seconda linea del Rugby Monza 1949, prima di rimembrare, sempre con il sorriso, alcuni dettagli in grado di caratterizzare pienamente quei momenti.
“Al supermercato del quartiere, diversi scaffali erano privi di prodotti. Per colmare tali vuoti, gli spazi venivano riempiti da fiori di vario genere, in grado di portare quel pizzico di colore e di vitalità di cui c’era bisogno”, ricorda, tornando con la mente agli ultimi mesi trascorsi stabilmente in Serbia, prima di partire verso l’Italia, che sarebbe presto diventata la sua seconda casa, e recentemente anche la sua seconda Nazione (Natalija è diventata ufficialmente cittadina italiana lo scorso 10 luglio, con giuramento presso il comune milanese di Masate, dove risiede).
“Al di là della guerra, il futuro in Serbia sarebbe stato senza ombra di dubbio più complesso, e soprattutto con meno prospettive di crescita, sia sotto il piano lavorativo, per i miei genitori, che sotto quello degli studi per me e mia sorella. Non appena mio padre, che lavorava in Italia da diversi mesi, rese possibile il nostro trasferimento, a fine conflitto, partimmo in bus verso il Belpaese. Un viaggio lungo, non solo in termini di kilometraggio e tempistiche”, spiega Nat, ricordando come fu persino difficile gestire un cambiamento del genere, ritrovandosi improvvisamente a passare dagli stenti di casa, seppur comunque lontana dalla condizione di povertà, all’improvvisa abbondanza italiana, un poco su tutti i fronti, compreso quello sportivo.
Il primo contatto con il rugby
La famiglia Pavlovic, come da tradizione balcanica, è da sempre super appassionata di sport, sia praticato che guardato. In casa si seguono con grande attenzione calcio, tennis e motori, oltre a tutte le discipline legate a doppia mandata al mondo serbo, ma non c’è spazio per il rugby, lontano dal background culturale del popolo di Belgrado. Natalija, così, nel solco genetico balcanico, non può che essere un’atleta e, negli anni dell’adolescenza, pratica a lungo il volley, completamente ignara di quello che sarebbe presto diventato il suo Sport, con la esse maiuscola. “Non conoscevo granché il mondo della palla ovale (sorride, ndr) e ovviamente non avevo mai praticato il rugby. Almeno sino all’estate tra la quarta e la quinta liceo, quando il mio miglior amico si era fidanzato con una ragazza in forza al Parabiago, che lo aveva convinto a provare. Entrambi portarono avanti un lavoro di persuasione incredibile nei miei confronti, al punto che a novembre, sfinita, mi presentai al campo per provare il brivido ovale, tra le fila di una squadra Under allestita da Monza e Cernusco”, spiega Nat, confessando come non li potrà mai ringraziare abbastanza.
“Ero tendenzialmente una ragazza schizzinosa, teoricamente lontana anni luce dal rugby, eppure il feeling magico con questo sport è sbocciato sin dal primo allenamento, dal primo placcaggio, dalla prima scivolata nel fango”, prosegue, con lo sguardo che si illumina. “Giocai un anno, di fatto, con due unici grandi obiettivi: divertirmi e lavorare il più possibile sui fondamentali di base, che per me, neofita della materia, erano tutti da costruire partendo da zero”, racconta, parlando di quella stagione ’10/’11 che le cambia letteralmente la vita.
Nessuna paura di (far) volare
Il rugby fa breccia prepotentemente nel cuore di Natalija, ma per qualche anno deve lasciare spazio, quasi integralmente, all’altra passione della ragazza di Zemun Polje, quella per l’ingegneria aerospaziale e per i propulsori che ogni giorno ci permettono di volare. Quegli stessi aerei, che da piccola la terrorizzavano con le bombe riversate sulla sua terra, diventano motivo di interesse viscerale, tanto da portarla a farne una delle sue ragioni di vita. “Alle superiori, seguendo la traccia di mio padre che aveva fatto per due anni l’accademia aeronautica militare, mi iscrissi al liceo aeronautico. Giorno dopo giorno, mi resi conto di quanto fossi attratta da tutte quelle materie di stampo ingegneristico, relative soprattutto a costruzione e definizione dei motori dei velivoli. Così fu una scelta quasi naturale iscrivermi alla facoltà di ingegneria aerospaziale, al Politecnico di Milano”, chiarisce, tratteggiando il complesso ed intrigante percorso di studi che l’ha portata da tempo alla laurea triennale, con una prestigiosa magistrale in propulsione ormai dietro l’angolo.
“Nei primi anni universitari dovetti interrompere la mia attività sportiva. Era difficile incastrare orari ed impegni accademici con altro. Studiare ingegneria, peraltro, è molto simile ad una partita di rugby: arrivare da solo al traguardo è possibile, ma molto difficile. Si deve lavorare di squadra. Serve circondarsi di persone che riescano a tirarti nei momenti complicati, e viceversa. Proprio come in campo, ad ogni placcaggio, ti devi rialzare e farti trovare pronto per l’esame successivo e sostenere, a tua volta, i compagni in difficoltà”, continua, rivelando, tuttavia, come il richiamo per il mondo del rugby resta sempre fortissimo e nel 2015, quando a Cernusco si forma la squadra 7s delle Papere e riceve un invito per unirsi al team (con cui ancora oggi è in ottimi rapporti), non può tirarsi indietro. Nat Rimette gli scarpini e torna in campo, ma, di fatto, sin dal primo allenamento, si sente come se non lo avesse mai realmente lasciato.
La famiglia del Rugby Monza
Nelle due stagioni di Coppa Italia 7s, nella provincia milanese, Pavlovic progredisce tecnicamente allenamento dopo allenamento. Le sue skills, seppure “ancora da migliorare molto su tutto il fronte del gioco”, crescono qualitativamente senza soluzione di continuità, di pari passo al suo desiderio di misurarsi con il rugby a XV. Così, nell’estate del 2017 decide di affrontare l’avventura sportiva più intrigante della sua vita, trasferendosi al Rugby Monza, una delle società più importanti nel panorama italiano femminile. “Volevo mettermi alla prova. Desideravo talmente tanto giocare a XV che avevo messo in conto anche un eventuale primo anno difficile, fatto magari di soli allenamenti. Allo stesso tempo, non avevo idea di come potesse rivelarsi l’impatto con le campionesse in rosa. Non nascondo ci fosse anche un minimo di timore, invece è stata la scelta migliore della mia vita. Sono entrata nella nuova realtà in punta di piedi ed in poco tempo tutto è andato davvero alla grande, meglio anche delle più rosee aspettative, in campo e fuori”.
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“Ho iniziato a giocare sin da subito (debuttando curiosamente in un Colorno-Monza, la stessa amichevole in cui Francesca Sgorbini indossò per la prima volta la maglia delle Furie Rosse), cercando di sfruttare al massimo ogni possibilità sia in prima che in seconda linea, mentre fuori dal campo, più che una squadra, ho trovato una famiglia. La società e le ragazze mi hanno accolta immediatamente come se fossi una di loro, riuscendo a mettermi a mio agio”, spiega entusiasta, parlando di persone speciali che hanno fatto irruzione positivamente nella sua vita.
Anche, e forse soprattutto, le più forti, le più titolate. “La semplicità e la disponibilità di campionesse conclamate come Isabella Locatelli e Lucia Cammarano mi hanno conquistato istantaneamente. Isa ha una capacità di spronare, sempre facendoti sentire brava ed importante, che ho visto raramente, sia nel mondo ovale che fuori. Con Lucia, purtroppo, non ho mai giocato in campo, ma conservo un ricordo che descrive la sua persona meglio di mille parole. Nonostante fosse infortunata, una sera venne al campo e passò un allenamento intero a sollevare, assieme a me, una ragazza che aveva timore in touche. Con la sua forza e la sua tranquillità seppe infondere, in un’ora, fiducia e serenità incredibili a questa nostra compagna.
Poi, vorrei spendere parole importanti anche per Rosa Bettolatti, un mio autentico mito, che a 38 anni è ancora in campo che lotta e, pur di allenarsi, si fa 4 ore di macchina ogni volta, e per Alessia Pampuri (per tutti Pemp) e Caterina Viganò, due amiche vere. Ma tutto il team è speciale: quando sono stata una decina di giorni in ospedale, lo scorso anno, non è passata una singola giornata senza che le ragazze non venissero a trovarmi. Ormai rappresentano gran parte della mia vita sociale”, sentenzia.
La passione per la Scozia
Punti di riferimento. Esattamente come Jonny Gray, il giocatore preferito, nella squadra preferita, della seconda linea del rugby Monza. “Da quando ho scoperto la palla ovale, il rugby giocato è sempre andato di pari passo con quello guardato. Seguo tantissime partite. Mi sono innamorata, quasi subito, della Scozia e dei Glasgow Warriors, i miei due team preferiti. Non mi perdo una loro sfida da anni, ed appena posso li vado a vedere allo stadio. C’è una certa affinità tra quello che è il mio modo di intendere la vita e l’attitudine media scozzese (sorride, ndr). Negli anni, poi, i giocatori e staff della selezione del Cardo hanno imparato a conoscermi ed anche se ormai è naturale, nel corso dei terzi tempi, fermarci a parlare, non nego che ciò mi faccia sempre un certo effetto”, narra Nat, che non esclude un futuro, anche professionale proprio in Scozia, il terzo paese del suo cuore.
Ambizioni e radici
“Il mio obiettivo, una volta conclusa l’università a metà 2020, è quello di entrare in un team che si occupi di progettazione di motori aeronautici, in un ambiente positivo e propositivo. Il tutto, però, necessariamente in un posto del Mondo in cui sia possibile proseguire la mia carriera ovale, perché non posso più farne a meno e ho ancora tanto da imparare. A partire dalla prossima stagione con le Ringhio”, chiarisce Pavlovic, che prima di salutarci, con emozione palpabile, tiene a ricordarci come il motore che le sta permettendo di volare, in campo e fuori, sia la sua famiglia, dai tempi di Zemun Polje sino ai banchi del PoliMi ed ai campi di Monza. “Devo tutto ai miei genitori. Sono la mia forza ed il mio orgoglio. Hanno avuto il coraggio di dare una sterzata alle nostre vite, la mia e quella di mia sorella, e la capacità di migliorarle giorno dopo giorno. Non sanno molto di rugby, ma il loro sostegno è impagabile ed impareggiabile. Come la loro fiducia, che mi aiuta ad essere sempre più ambiziosa, nello sport come nella vita”, conclude Natalija, la cui tratta aerea, professionale e sportiva, è ancora ben distante dalla fase d’atterraggio.
Matteo Viscardi
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