Non ci raccontiamo storie: la partita con il Sudafrica era quasi ingiocabile in partenza, gli Azzurri hanno fatto il possibile finché sono rimasti in 15
Tanto inchiostro, cartaceo e digitale, è stato versato dal momento del fischio finale della partita fra Italia e Sudafrica, una sconfitta netta per gli Azzurri che ha molto probabilmente sancito l’uscita dell’Italia dalla Rugby World Cup 2019, anche questa volta incapace di superare la fase a gironi.
I giudizi dati agli Azzurri attraversano tutto lo specchio del possibile: da chi sostiene che con il cartellino rosso comminato a Andrea Lovotti l’Italia abbia gettato al vento i quarti di finale fino a chi trova nella sconfitta contro il Sudafrica l’evidenza di un fallimento totale su tutti i piani. Adesso che il mondiale prosegue per la propria strada, e che la polvere sollevata dalla battaglia di Shizuoka si è posata, possiamo provare a mettere in ordine una volta per tutte i pezzi del puzzle, e ricostruire una narrazione coerente di quanto accaduto.
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Dal 10 maggio del 2017 sappiamo che le nostre speranze di passare il turno sono appese a un filo. Da quando, cioè, il sorteggio di Kyoto ci ha giocato il brutto scherzo di metterci nello stesso girone di All Blacks e Springboks. E se ancora l’onda lunga della vittoria sul Sudafrica di Firenze illudeva qualcuno, anche quel qualcuno veniva bruscamente riportato alla realtà già dal 35-6 inflittoci proprio dal Sudafrica a Padova nel novembre di due anni fa.
Ecco perché nessuno, per questo motivo e per i risultati della nostra nazionale nel contempo, può far finta di non sapere che quella a cui andava incontro l’Italia era una sfida impari, una sorta di voto di sacrificio, un David contro Golia ma senza neanche la fionda.
Certo, Conor O’Shea, Sergio Parisse e tutti gli altri hanno messo la partita nel mirino, hanno espresso fiducia e dichiarato che si poteva fare, giocando la partita della vita. Sicuramente non avrebbero alzato le mani in partenza, dichiarandosi sconfitti ancor prima di scendere in campo.
Per 42 minuti l’Italia ha fatto il possibile, per quanto nelle proprie capacità. Ha giocato una partita ad un livello forse anche superiore al proprio: ha ridotto al minimo il numero di errori individuali, ha attuato un piano di gioco inusuale, fuori dalle proprie corde, cercando di non passare per i punti d’incontro in fase di possesso. Abbiamo giocato meglio del solito con i piedi, vincendo anche le poche fasi di ping pong tattico dell’incontro.
La nazionale ha subito in maniera drammatica lo scontro fisico, è stata involontariamente agevolata dalla mancata contesa delle mischie ordinate, è stata graziata in qualche occasione da un Sudafrica che ha commesso errori madornali, come spesso succede alle squadre molto più forti che si trovano ad affrontarne una di livello inferiore. E in fondo era quello che speravamo accadesse, era il granello di sabbia nella macchina sudafricana che gli Springboks si sarebbero messi da soli tutto ciò a cui si aggrappavano le speranze dei nostri.
Proprio quando le cose sembravano inaspettatamente volgere in nostro favore, con quell’attacco che potenzialmente avrebbe potuto dare un appiglio al sogno di riaprire la partita, il patatrac.
Il fallo di Andrea Lovotti non deve diventare un alibi, il soldato di fanteria il capro espiatorio su cui accanirsi: possiamo serenamente dirci che in praticamente qualsiasi universo parallelo in cui Vermeulen non è stato messo sottosopra dalle nostre prime linee, l’Italia avrebbe comunque perso la partita e non di poco. Nonostante questo, e al netto dunque del cartellino rosso, cosa possiamo rimproverare agli Azzurri?
L’unico neo della loro prestazione è stato quello di non riuscire a mettere punti sul tabellone nelle due occasioni in cui sarebbe stato possibile nel primo tempo. Allargando il cerchio, ci piacerebbe vedere la determinazione e l’attitudine che i giocatori hanno espresso per tutto l’arco degli 80 minuti, anche contro l’evidenza degli eventi, in maniera più continua: da un punto di vista di approccio questa era una partita facile da percepire e preparare mentalmente come una finale, fare lo stesso con qualche gara del Sei Nazioni è più complesso, ma potrebbe regalarci maggiori soddisfazioni.
Attendersi più di questo significa essere in qualche modo scollati dalla realtà del nostro rugby, non avere coscienza del livello della nostra nazionale. Per questo motivo non ha ragione né chi incolpa la stupidata del 42′ di aver infranto un sogno, né chi ha interpretato questa partita come un verdetto definitivo, come se fosse stata questa gara a sancire lo stato dell’arte del movimento ovale italiano.
Intanto, per fare un bilancio di questa esperienza mondiale bisognerà aspettare il 12 ottobre, quando ci ritroveremo nuovamente sul divano a tifare per gli Azzurri in una sfida impossibile. Dal fischio finale di quella gara in poi potremo tracciare una linea e dare dei verdetti conclusivi. Per il momento, ci teniamo stretto il cuore e l’abnegazione di questa Italia, che nel bene e nel male ha dato tutto quello che poteva dare.
Lorenzo Calamai
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