Qual è l’eredità di Hansen e quanto sarà difficile da elaborare la pesante sconfitta di Yokohama?
L’elaborazione della grave sconfitta subita in semifinale dagli All Blacks richiederà molto tempo per essere completata. Nelle parole e nei gesti dei neozelandesi, sia a caldo sia nei giorni successivi, la sensazione di malessere mista a incredulità è preponderante e non svanirà presto, perché quella di Yokohama non è stata una sconfitta ‘normale’, per quanto possa considerarsi tale una qualunque disfatta della miglior espressione di squadra nello sport.
Se quella del 2007 (la penultima in un Mondiale) contro la Francia fu scioccante perché arrivata addirittura nei quarti di finale, per di più in una partita controversa per certi versi, quella di sabato è stata traumatizzante. Nessuna squadra era riuscita a dominare in questo modo gli All Blacks negli ultimi tempi, a schiacciarli nella loro metà campo per tutti gli ottanta minuti e in generale a farli sembrare una squadra senza un’idea di cosa fare con il pallone in mano.
Questi All Blacks avevano perso la loro aura di invincibilità da ormai qualche anno, ma una battuta d’arresto di queste proporzioni non era immaginabile, sebbene sia arrivata contro la squadra più completa del mondo tecnicamente e tatticamente al giorno d’oggi. Ma per la Nuova Zelanda non può essere una giustificazione, anche perché si presuppone che il titolo di miglior squadra del rugby mondiale debba sempre appartenere a loro.
L’accettazione della sconfitta, insomma, sarà molto complicata e lo dimostra anche la difficoltà di Steve Hansen nel nascondere le proprie emozioni nella conferenza stampa di domenica, a freddo, ventiquattro ore dopo la fine della partita. Quando gli è stato chiesto con chi avesse parlato dopo la sconfitta, Hansen – che lascerà l’incarico dopo il Mondiale, come anche il coach degli avanti Mike Cron – ha detto di aver telefonato alla moglie, ma prima di continuare ha dovuto fermarsi per trattenere le lacrime.
“Abbiamo chiacchierato un po’. Poi ho parlato con Ted (Graham Henry, ndr) e Conrad (Smith, ndr) della partita del 2007 e ci siamo detti che non c’era differenza con questa, perché le sensazioni erano le stesse. Poi con Ted abbiamo parlato di quanto George Ford abbia giocato bene. Poi Ted ha fatto qualche altro commento, ho ascoltato e ho provato a imparare qualcosa. Poi si va avanti, no?”.
“Se è difficile da digerire? Certo che lo è. Ti torce lo stomaco, perché volevamo vincere. La vita non è giusta, quindi perché dovrebbe esserlo lo sport. Non ottieni sempre quello che vuoi. E quando non lo hai, devi misurarti con te stesso per capire come affrontarlo”.
Cosa resta agli All Blacks
La sconfitta contro l’Inghilterra è stata la prima dopo diciotto partite in una Rugby World Cup e la decima in 107 partite nella gestione di Steve Hansen, che avrebbe voluto lasciare un’eredità senz’altro diversa al suo successore e a una squadra relativamente giovane. Per Hansen, in ogni caso, i due quadrienni passati alla guida degli All Blacks sono stati sensibilmente diversi fra di loro.
Tra il 2012 e il 2015 gli All Blacks hanno forse conosciuto la vera immortalità. Non hanno perso per 22 partite consecutive, ne hanno vinte 17 di fila, sono usciti sconfitti dal campo solo due volte e hanno vinto la Rugby World Cup 2015, trascinati da giocatori che nei rispettivi ruoli saranno ricordati tra i più grandi di sempre in Nuova Zelanda: Woodcock, Franks, Kaino, McCaw, Carter, Nonu, Conrad Smith… Ma anche gli stessi Whitelock, Retallick, Read e Aaron Smith. Quella squadra era infallibile.
Alcuni di questi giocatori si sono ritirati, sono stati sostituiti da tanti giocatori talentuosi ed eccezionali, ma almeno inizialmente gli All Blacks – complici anche le difficoltà degli avversari – non hanno avvertito alcun cambiamento. Pur rimanendo straordinaria, la Nuova Zelanda però ha cominciato a essere quantomeno più vulnerabile: ed ecco le sconfitte contro l’Irlanda, la serie pareggiata contro i British&Irish Lions e le sofferenze contro il Sudafrica tornato grande (il vero rivale, di solito), per esempio.
Forse la semplificazione è stata eccessiva, ma il percorso degli All Blacks negli ultimi due anni è stato più accidentato e il culmine è stato toccato probabilmente nell’ultima estate, quando lo staff tecnico ha preso consapevolezza del fatto che per questa squadra serviva un’accelerazione repentina nel cambiare il XV titolare e un piano di gioco diverso, soprattutto per adattarsi meglio alle difese avversarie.
E quindi fuori dai convocati Owen Franks, messi ai margini Ben Smith, Rieko Ioane e progressivamente anche Sonny Bill Williams e Ryan Crotty; spazio invece a George Bridge e Sevu Reece, fiducia all’asse Mo’unga-Barrett e a piloni più mobili e completi tecnicamente.
Visto che sono comunque gli All Blacks, la risposta ai cambiamenti è stata superlativa, con una vittoria schiacciante contro l’Australia nella Bledisloe Cup e un successo per certi versi strabiliante – per come sono arrivate le mete – contro il Sudafrica al principio di questa Rugby World Cup. Nessuno avrebbe mai messo in dubbio il loro status di assoluti favoriti per la vittoria nel Mondiale, per di più dopo la roboante vittoria nei quarti contro l’Irlanda, eppure alcuni nodi sono venuti al pettine proprio nel momento decisivo, ovvero sabato contro l’Inghilterra.
Quali? Banalmente, il fatto di essere una squadra solo straordinaria, ma non di essere epica. E di questo forse nessuno può averne colpa: avere nello stesso XV titolare Kaino, McCaw, Carter, Nonu e Conrad Smith e Owen Franks, Retallick, Whitelock, Read, Aaron e Ben Smith al massimo della forma capita una volta nella vita, del resto. Gli All Blacks non erano abbastanza forti degli inglesi per quanto riguarda alcune individualità già alla vigilia, ma il campo ha enfatizzato ulteriormente queste differenze soprattutto nel pacchetto di mischia, in un modo che i neozelandesi non potevano aspettarsi.
In tanti, con il passare dei minuti, si aspettavano che da un momento all’altro gli All Blacks avrebbero messo in mostra le loro qualità offensive e inflitto dei colpi decisivi agli inglesi. Più il tempo passava, però, più risaltava solo la totale impotenza neozelandese nel costruire un’azione degna di questo nome e la rassegnazione nel dover arrabattarsi in difesa in qualche modo. E questo forse ha confuso tutti, in primis i giocatori in maglia nera, storditi dal fatto che l’inerzia del match non si stava spostando nelle loro mani, nemmeno dopo due mete annullate agli inglesi. Sliding doors? Non questa volta, insomma. Questa volta gli All Blacks non hanno trovato vie d’uscita.
Cosa c’è all’orizzonte?
La finale per il terzo posto contro il Galles sarà una sorta di grande abbraccio collettivo d’addio. Gli All Blacks saluteranno Hansen e Cron, ma anche Kieran Read, Matt Todd, Ryan Crotty, Ben Smith, forse Sonny Bill Williams e almeno per due anni Brodie Retallick. Probabilmente saranno tutti in campo, per mettere la parola fine a questo ciclo così particolare
“Dobbiamo provare a risollevarci e a rappresentare il nostro Paese di nuovo con orgoglio e dignità, per provare a giocare al meglio della nostre possibilità e vincere” – ha detto Hansen, che poi ha speso alcune parole soprattutto sui più giovani e su chi avrà le maggiori responsabilità nei prossimi mesi, quando gli All Blacks dovranno ripartire. In campo, nella semifinale, c’erano cinque giocatori con 25 o meno anni (tutti fra i trequarti) e altri – sia in campo sia in panchina – che sono entrati relativamente da poco nelle rotazioni della squadra.
“È importante che riescano a gestire questa sofferenza. Questi ragazzi giocheranno ancora molto a lungo perché sono molto talentuosi. E si porteranno dietro tutto questo. È fondamentale tornare in sella, farsene una ragione e andare avanti”.
Daniele Pansardi
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