Abbiamo parlato con il numero 9 dell’addio con Treviso, del sorprendente approdo a Colomiers e della sua vita fuori dal campo
Edoardo “Ugo” Gori, numero 9 dai lunghi trascorsi in maglia azzurra, in pochi mesi, è diventato un cittadino adottivo dell’Alta Garonna, dove sta giocando con grande continuità in ProD2 con la maglia di Colomiers (stasera partirà titolare contro Nevers. Sin qui dodici presenze su dodici, sette da titolare, ndr) e si sta immergendo sino in fondo nella nuova esperienza di vita, sia in campo che nella vita di tutti i giorni. Lo abbiamo raggiunto per una lunga chiacchierata, affrontando diversi temi d’interesse, dall’addio al Benetton Rugby sino alla nuova vita a Colomiers, passando attraverso vita privata e futuro professionale.
Edoardo Gori, come si sta trovando in Francia?
Alla grande. Mi sto divertendo tantissimo e sto imparando cose nuove ed interessanti ogni singolo giorno. Amo viaggiare e scoprire in modo approfondito culture diverse dalla nostra. Per quanto concerne il rugby, poi, l’interesse per il nostro sport, a queste latitudini è spasmodico. Si tratta della disciplina nettamente con più seguito. Questa cosa, per il momento è oltremodo stimolante. Nonostante si sia in seconda divisione, la gente ti riconosce per strada, negli stadi ci sono abitualmente 8/10 mila persone, con tamburi, trombe, la banda. C’è entusiasmo, ed i giocatori ne traggono grandi benefici.
Una nuova vita, iniziata dopo l’addio con il Benetton Rugby. Come si è arrivati alla fine del rapporto (lungo nove anni, ndr) con i Leoni?
Sono conscio del fatto che lo sport sia così. Quando le cose vanno bene, va tutto a gonfie vele. Quando inziano a non funzionare più come prima, cambiare è lecito. L’ultimo anno non ho mai giocato, mentre l’anno precedente ho patito un infortunio pesante. Treviso, inoltre, sta iniziando un nuovo percorso e le scelte tecniche sono state diverse. La decisione è stata più della squadra. Io, con il senno di allora, sarei rimasto. Anche perché sono diventato un uomo a Treviso. Amo la città e l’ambiente, ed i miei migliori amici sono tutti lì. In dieci anni era diventata quasi la mia casa. Ma non ho astio con nessuno, anzi, con la società ho un ottimo rapporto. Sono stato trattato benissimo anche negli ultimi mesi e quando la separazione era decisa. Nello sport va così. Non puoi avere in rosa un giocatore che non ti serve.
Ho sempre dato il massimo per avere le mie chance, ma anche alla luce di determinate scelte tecniche, e dei gusti del coach, alla fine era giusto cambiare. Ho sofferto molto, ma sarebbe stato strano non patirne, probabilmente. Da marzo in poi ero abbastanza giù. Forse, per la prima volta nella mia carriera, sapendo che probabilmente nel weekend non avrei giocato, era diventato quasi un peso andare al campo, quando per me è sempre stato qualcosa di bellissimo. Stavo iniziando a convincermi che avrei presto dovuto vedere il rugby più come un modo per riuscire a finire di studiare in modo sereno, come una cosa quasi secondaria, focalizzandomi più sull’organizzare il mio futuro post carriera. Se vogliamo, da un lato, la si poteva valutare come una cosa positiva, ma dall’altro, alla luce anche della mia età, non più giovanissima per carità, ma ancora con diversi anni davanti da spendere, era un qualcosa che mi faceva male. Da quando ho iniziato questa nuova avventura si è riacceso ardentemente il desiderio di mettermi alla prova sul campo.
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Anche se, da quanto dicono di lei, allo studio continua a dedicare grande attenzione…
Si, assolutamente. Ho iniziato tre anni fa, assieme a Valerio Bernabò, un corso di laurea intrigante a Roma: una triennale di Link Campus University (ateneo privato, con affiliazione al Coni) in Economia dello Sport. Un percorso molto interessante, che ti può aprire diverse opzioni: in Italia, nel mondo del rugby, ma in generale in quello sportivo, c’è bisogno di dirigenti di livello. Sto riuscendo a studiare molto in questi mesi e ne sono orgoglioso. Compatibilmente agli impegni lavorativi, conto di ottenere la laurea entro un anno, o poco più.
Ho notato che nel nostro paese c’è la necessità di fare qualcosa, con competenza, in questo ambito. La possibilità di studiare, in più, mi ha aiutato realmente a staccare la testa dal rugby giocato, mantenendo un equilibrio. Farlo, poi, in un ramo che mi appassiona molto, come quello sportivo, è un vero piacere. Più vado avanti, più si sta rivelando una cosa stimolante.
Tornando al campo, a “mente fredda”, a distanza di diversi mesi, ormai, dal suo sbarco in Francia, come sta andando a Colomiers? Quali sono, invece, gli obiettivi per i prossimi mesi?
Sono molto contento per questi tre mesi. Vengo da un paio di partite non brillanti, ma nel complesso va alla grande. Siamo quarti, a ridosso delle prime tre squadre, tre corazzate. Stiamo facendo un bel gioco, siamo efficaci e ci stiamo divertendo, per cui direi che sta andando pure meglio delle aspettative di inizio anno. Peraltro, sto prendendo sempre più confidenza con il team, e vorrei riuscire ad abbinare alla consistenza di questi primi mesi anche una maggiore qualità nelle prestazioni. Voglio essere più incisivo in attacco. Voglio fare un piccolo step ulteriore, ed essere uno degli elementi in grado di fare la differenza.
Mi sto trovando molto bene con la squadra, con lo staff. Con il senno di poi sono molto contento dell’opportunità, e grato anche a Mogliano, con cui avevo praticamente trovato un accordo di massima (mancavano solo i dettagli e la firma), per aver compreso la decisione di trasferirmi in Francia all’improvviso.
Come è nata, nel concreto, questa opportunità francese?
Conosco molto bene Enrico Endrizzi, direttore sportivo della squadra veneta ed assistente allenatore di Costanzo. Abbiamo un ottimo rapporto. Avevamo chiuso il contratto a parole. Anche perché Mogliano mi era venuta incontro sotto tanti punti di vista. Avevamo parlato di diversi aspetti interessanti. Quasi certamente, avrei firmato il martedì sera, di rientro da un lungo weekend a Dublino per andare a trovare la mia ragazza. Il venerdì sera, però, ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto francese, rifiutandomi inizialmente di rispondere. Al secondo tentativo, tuttavia, ho deciso di rispondere: era Jacques Brunel. Mi domandò come stessi e mi disse che Colomiers, alla ricerca di un numero 9, gli aveva chiesto informazioni sul mio conto. Fui sorpreso e positivamente colpito dalla cosa, ma gli dissi che stavo per firmare con Mogliano e difficilmente, senza una proposta concreta in tempi celeri, avrei cambiato idea. Il giorno dopo mi hanno mandato un’offerta irrinunciabile (2 anni più 1, e la possibilità di fare un’esperienza incredibile), anche perché avevo sempre voluto provare a giocare all’estero. Ho spiegato il tutto ad Endrizzi, che ha capito la mia scelta, confermando di essere un amico e una grande persona. Devo ringraziarlo, così come devo fare la stessa cosa con Jacques Brunel.
A proposito di head coach della Nazionale, conosci ovviamente molto bene Franco Smith. Vi siete sentiti dopo l’annuncio del suo incarico come head coach azzurro per il prossimo Sei Nazioni 2020?
Non ci ho ancora parlato. Sarà difficile che in questo momento possa essere papabile per la nazionale. Con Franco ho avuto un ottimo rapporto: mi ha sempre fatto giocare tantissimo (sorride, ndr), quindi immagino che gli piaccia come giocatore, ma sono passati tanti anni da quando abbiamo lavorato assieme e dal punto di vista fisico, sinceramente, ero una cosa diversa rispetto ad oggi. Ultimamente, comunque, ci penso poco alla nazionale. Anche per il Mondiale, Conor mi aveva tenuto in considerazione per il primo gruppone, ma ero conscio di non essere pronto e del fatto che avrei potuto anche compromettere la nuova avventura, che non potevo permettermi di non iniziare nel modo migliore. Per ora, il mio primo obiettivo è stare bene e divertirmi. Poi, se le cose dovessero proseguire così, se nelle prossime stagioni dovessimo salire in Top14, mai dire mai anche in ottica azzurra.
Hai accennato a Conor O’Shea, che ha concluso di recente la sua esperienza alla guida degli azzurri. Come valuti il suo operato?
Secondo me Conor (O’Seha, ndr) ha portato una ventata fresca al movimento, ed ha aiutato anche la crescita di Treviso ed in generale delle franchigie. Purtroppo non ha la bacchetta magica e non è facile lavorare su un serbatoio costituito da sole due squadre. Per cui, è complesso competere contro Nazionali con numeri di un certo tipo, che sono in grado di produrre giocatori di alto livello senza soluzione di continuità. Non gli imputerei nulla. Certo, le scelte tecniche si possono sempre discutere, ma non è tanto lì che si vincono le partite, ma ben più a monte, a partire dalla qualità complessiva di un movimento.
Conor, un irlandese come altre due figure chiave della tua vita. Possiamo dire che l’Isola di Smeraldo sia quella del destino, per Edoardo Gori?
Mia nonna era irlandese. Purtroppo se ne è andata qualche anno fa, ma grazie a lei è nato un legame speciale con l’Isola di Smeraldo. Pure la mia fidanzata è irlandese. La sera dopo la partita del Sei Nazioni 2018 contro i verdi, l’ho conosciuta a Dublino. Poi, purtroppo, la settimana ho avuto un infortunio pesante, e nel corso del periodo riabilitativo sono tornato qualche volta a trovarla. Da cosa nasce cosa e oggi siamo una coppia da quasi due anni. La vita è particolare: regala e toglie. Quell’infortunio mi ha fatto patire tantissimo sul fronte rugby, ma almeno mi ha restituito qualcosa. E per certi versi, mi piace pensare che mi abbia aperto anche una nuova vita sportiva. Non fosse per lei, per quel viaggio a Dublino, probabilmente non avrei mai avuto questa nuova incredibile avventura, dentro e fuori dal campo.
Matteo Viscardi
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