Da “gentaglia” a eroi, elogio degli studenti che 50 anni fa marciarono contro l’apartheid

50 anni fa un gruppo di studenti britannici mise a rischio il tour degli Springboks

ph. Sebastiano Pessina

La Rainbow Nation, allora, viveva solo nei sogni di qualche visionario, molto probabilmente rinchiuso in un carcere di massima sicurezza su un’isola al largo di Città del Capo. L’opinione pubblica mondiale, salvo rare eccezioni, non aveva ancora cominciato ad interrogarsi su quanto stava succedendo in Sudafrica, ma qualcosa si stava muovendo.

Tra le voci che iniziavano a levarsi contro il regime di apartheid si sono distinte quelle di alcuni studenti britannici che, esattamente cinquant’anni fa, hanno deciso di farsi sentire e di farlo in modo eclatante.

La protesta di migliaia di studenti (allora bollati dall’opinione pubblica come “teppisti”, “capelloni” e gente “con troppo tempo libero a disposizione” che mancava di rispetto ad un paese che aveva combattuto in due guerre mondiali al fianco del Regno Unito) ha reso molto difficile il tour britannico degli Springboks, arrivando al punto che doveva quasi essere sospeso.

Ne parla Brendan Gallagher nel suo articolo su The Rugby Paper, celebrando un evento cui non è stata data, forse, la giusta rilevanza in un anno che ha visto gli Springboks trionfare in Giappone nella RWC con una squadra davvero multietnica.

Peter Hain (che sarebbe diventato parlamentare britannico, figlio di genitori sudafricani anti-apartheid) fu colui che organizzò le proteste, aiutato in Scozia da Gordon Brown (futuro primo ministro, che perse un occhio giocando a rugby).

Durante il tour in Gran Bretagna del 1969 degli Springboks fu organizzato il cosiddetto “Protest Tour” che ha previsto azioni dimostrative di vario livello, tra cui quella del “dirottamento del pullman” del Sudafrica da parte di uno dei manifestanti che salì a bordo del veicolo che avrebbe portato gli Springboks dal loro hotel a Twickenham mettendolo in moto. Prima di essere fermato dai giocatori, riuscì ad andare contro sei veicoli.

Un’altra protesta, stavolta a Cardiff prima della sfida contro il Galles, vide manifestanti radunarsi sotto l’hotel degli Springboks per tenerli svegli tutta la notte. I manifestanti, però, non avevano calcolato che il Galles dormiva allo stesso hotel e la protest venne interrotta dopo una discussione con un membro della WRU.

Furono organizzate anche invasioni di campo, con tattiche sempre diverse che hanno preso di sorpresa le forze di polizia costrette, a loro volta, a cambiare strategia per contrastare il fenomeno, fino ad organizzare pattuglie di poliziotti “rugbisti” con scarpini a bordo campo per placcare (fisicamente) ogni tentativo di invasione.

La nazionale sudafricana fu scortata ventiquattr’ore al giorno, per tutti i giorni del tour, e la scorta cercò sempre di trovare soluzioni alternative (come arrivare allo stadio ore prima della gara) per evitare i manifestanti – come quando la sede della gara di apertura contro la Oxford University (Twickenham) fu annunciata ai Bokke (che avevano l’hotel poco fuori Bournemouth, distante circa 90 miglia dalla casa del rugby inglese).

Sono passati cinquant’anni da quei giorni del 1969 e il mondo è cambiato tantissimo, ma nonostante gli innegabili passi in avanti compiuti, sappiamo che non bisogna mai abbassare la guardia, perchè la strada verso l’inclusione di tutti (in ogni campo e anche nel rugby) è ancora lunga. Allo stesso modo, è importante ricordare la protesta di questi studenti che non ebbero paura di mettersi “dalla parte del torto” e che hanno saputo, con le loro azioni, fare luce su un regime che solo nel 1991 fu sconfitto.

Matteo Mangiarotti

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