Monumenti: Rodrigo Capo Ortega

Ha annunciato il ritiro a fine stagione il seconda linea di Castres, bandiera uruguaiana nel cuore della terra ovale di Francia

ph. REMY GABALDA / AFP

Gli inglesi hanno preso Horacio Nelson, l’ammiraglio che sconfisse Napoleone nella battaglia navale di Trafalgar, e lo hanno messo su un piedistallo: gli hanno fatto un monumento e l’hanno messo in una piazza gigantesca, e l’hanno chiamata Trafalgar Square.

Forse a Castres non esisterà mai (o magari esiste già) Place Toulon o Place Montpellier, e forse non ci sarà mai un blocco di marmo scolpito con le sue sembianze, ma Rodrigo Capo Ortega è di diritto un monumento del Castres Olympique.

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Quarant’anni a dicembre per Capo Ortega, di cui quasi la metà passati in Francia, o meglio nel Tarn, che Oltralpe è quella regione che appartient à la terre d’ovalie, appartiene a Ovalia, come recita doviziosamente la pagina Wikipedia del département. E’ una zona di Francia di piccole cittadine caratteristiche del Sud Ovest, dove il cibo è pesante e l’appartenenza un valore primario. Il capoluogo è Albi, 50mila anime circa, una cattedrale pazzesca, una storica tendenza all’eresia e un altrettanto storico club di rugby.

Quaranta chilometri più a sud ecco Castres, la seconda città più importante della regione, nota principalmente per aver dato i natali a Jean Jaurès e per avere la più grande collezione di arte pittorica spagnola in Francia dopo quella del Louvre nel decantato museo dedicato a Francisco Goya, ma soprattutto per essere stata cinque volte campione di Francia, alzando il Bouclier de Brennus nel 1949, 1950, 1993, 2013 e 2018.

E nelle ultime due vittorie, in maniera quasi inaspettata, un’impronta forte è quella dell’uruguaiano Capo Ortega, partito da Montevideo all’alba del nuovo millennio, capace di conquistarsi un posto nel cuore degli occitani nonostante tutto.

Gli acquisti, ad esempio: durante la sua permanenza a Castres, il club biancoblu porterà a giocare sul prato del Pierre Fabre la seconda linea della nazionale francese Lionel Nallet, il colosso Pascal Papé, lo scozzese Richie Gray. Niente da fare, però, nessuno può scalzare Capo Ortega dal suo posto nel motore della squadra, in seconda linea. E dopo diciotto stagioni e 400 presenze accumulate avendo ricondotto la squadra al trono di Francia per due volte, il rispetto acquisito dal giocatore fra compagni, tifosi e avversari è colossale.

Non è sempre stato così. Nei primi anni, per sua stessa ammissione, Capo Ortega ha faticato: “Non facevo troppa attenzione al mio stile di vita, mi allenavo il minimo indispensabile e mi infortunavo spesso.”

Fisicamente imponente, sopra il metro e novantacinque d’altezza, l’uruguaiano non riusciva a rimanere nel peso forma, accumulando infortuni e frustrazioni in un club che negli anni zero del Duemila vive di ambizioni frustrate. La svolta per Castres e per Capo Ortega arriva quasi simultanea: la squadra beneficia dei risultati del lavoro di due allenatori giovani e intraprendenti, Laurent Travers e Laurent Labit, che riportano la squadra ai livelli che le competono; il giocatore conosce Julie, si sposa e mette definitivamente la testa a posto.

E’ il 2012, sono dieci anni che gioca in Francia: “Quando ho conosciuto mia moglie sono rientrato sulla retta via. Ci siamo sposati e poi sono partito direttamente per il CERS, il centro europeo di rieducazione sportiva di Capbreton, dove ho perso 7 chili” ha raccontato alla stampa francese il seconda linea.

“E’ stato come ripartire. Ho cominciato a prenderci gusto nel fare cose che prima non facevo: stare attento a cosa mangio, allenarmi con applicazione.”

La svolta è immediata: il club arriva quarto nel Top 14 2012/2013. Montpellier è sconfitto 25-12 nei barrage. La semifinale si gioca a Nantes, di fronte c’è la corazzata Clermont. Che l’anno sia quello buono si capisce lì: Parra, Rougerie, Fofana, Lee Byrne, Sivivatu, Bonnaire escono sconfitti da un pugno di ribelli capitanati da Remi Tales, Rory Kockott e quel condottiero uruguaiano, l’unico che fino ad allora sia assurto alle cronache ovali di una certa rilevanza, che dà battaglia in seconda linea. Kockott e Tales ci mettono i punti, Capo Ortega fa il lavoro sporco: finisce 25-9.

E’ così che si svolge anche la finale dello Stade de France, contro il Tolone di Wilkinson e Giteau, Carl Hayman e Bakkies Botha: Kockott segna una meta, Tales ci mette due drop, a fare la battaglia contro il mostruoso pack degli avversari ci pensa l’uomo da Montevideo. Castres 19, Tolone 14: campioni di Francia dopo 20 anni.

Se già questo non bastasse a consacrare un giocatore nella storia, Capo Ortega il Bouclier torna a sollevarlo cinque anni dopo, in maniera ancora più inaspettata e stavolta da capitano. Ricorderete, era appena il 2018: Castres si qualifica da sesto in classifica alla fase finale della stagione, l’ultimo posto disponibile.

Gli sconfitti in serie sono il Tolosa di Ghiraldini, Kolbe e Fickou, il Racing 92 di Vakatawa, Lauret e, proprio lui, Remi Tales. In finale a cadere è il Montpellier, dominatore assoluto della stagione regolare, sconfitto da un Castres in realtà molto diverso da quello di cinque anni prima. E’ cambiata la guida tecnica: in panchina c’è Cristophe Urios, Rory Kockott continua ad essere il metronomo della squadra ma non è più onnipotente com’era parso in passato, la numero 10 è sulle spalle di una argentino di 32 anni semisconosciuto ma dalla precisione millimetrica, Benjamin Urdapilleta.

Le cose sono cambiate anche per Rodrigo Capo Ortega. Il seconda linea non è più nel fiore degli anni, e spesso gli vengono preferiti alcuni compagni. Nel barrage e nella semifinale entrerà dalla panchina per buttare tutto quello che ha nel serbatoio negli ultimi 25 minuti. Ma la finale, no: quella la gioca. Ottanta minuti con la fascia da capitano al braccio. Castres domina: vince 29 a 13, lo scudo di Brenno lo alza al cielo Capo Ortega, scolpendo definitivamente il proprio nome in quello della storia del club e del Top 14.

Qualche settimana fa, prima che tutti i campionati venissero sospesi, ha annunciato il ritiro. Pensare di poter fare un altro anno, dice, è ingannarsi sulle proprie condizioni fisiche. La sua ultima partita rischia di essere una sconfitta, 26-24, sul campo del Bordeaux-Begles. Nonostante tutto, un finale non poi così malvagio, con quella galoppata di 50 metri a 39 anni per vedersi consegnare un pallone da schiacciare in meta per la ventiquattresima volta in 18 anni. Un lascito gioioso, una dimostrazione pratica del carattere di un giocatore esemplare, votato per due decenni a una cosa sola: sostegno.

Lorenzo Calamai

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