C’è un gap ancora netto fra i dati a disposizione del pubblico e quelli utilizzati dai professionisti
Nel mondo dello sport di oggi c’è una vera e propria ossessione per i numeri, i dati, le statistiche. Una piccola rivoluzione che era già in atto sottotraccia prima dell’uscita di Moneyball, il film del 2011 tratto da una storia vera, con Brad Pitt general manager di una squadra di baseball che decide di mettere da parte lo scouting vecchio stile, basato sulle impressioni degli esperti, per affidarsi a un approccio, per l’appunto, statistico.
Da lì, più o meno, la faccenda è arrivata sotto le luci dei riflettori, accelerando in maniera esponenziale il processo di emulazione da parte di tutti gli ambiti sportivi, e straripando dagli argini ristretti degli addetti ai lavori per arrivare a chi lo sport lo racconta. E oggi, com’è giusto, è impossibile farne a meno: le statistiche sono la stampella che aiuta chi scrive a sostenere la propria tesi, aiutano in quel mestiere di traduzione della complessità di un incontro.
“Stats do lie.” Le statistiche mentono, dice però Wayne Smith, che è stato assistente allenatore degli All Blacks e consulente della federazione italiana..
E’ vero, per certi versi. A disposizione del grande pubblico, infatti, ci sono per ogni partita giocata a livello professionistico alcuni dati generali rintracciabili sul web che hanno un significato limitato: il numero di placcaggi fatti, il numero di metri percorsi palla in mano, il numero di cariche effettuate da quel giocatore; le percentuali di possesso e territorio di una squadra durante la partita. Si tratta di numeri che hanno un significato, ma che a volte non raccontano tutta la storia di un incontro, se non sono addirittura fuorvianti, alle volte.
E’ difficile che un giocatore che ha fatto più di 20 placcaggi in una partita, ad esempio, non sia stato un elemento importante della prestazione difensiva della sua squadra. Però potrebbe essere stato inferiore ad un compagno che ne ha fatti la metà, ma dominanti, portando indietro l’avversario. O, ancora più determinante ai fini del giudizio di una prestazione: qual’è la differenza sul foglio delle statistiche fra un difensore che sbaglia un placcaggio senza conseguenze di sorta e uno che con il suo errore concede una meta agli avversari? Nessuna.
Ecco allora che giudicare una prestazione conseguentemente a certi numeri può diventare una trappola più che un supporto a sostegno e certificazione delle proprie tesi.
Qualche dettaglio in più
Dallo scorso anno il sito ufficiale del Sei Nazioni fornisce a tutto il pubblico dettagliati report statistici delle partite. Documenti solitamente accessibili solamente agli staff tecnici o ai media che investono un ammontare non irrisorio di denaro in specifici programmi di aziende che forniscono tali dati.
Rispetto ai dati di cui sopra si scoprono cifre assai interessanti, come ad esempio la percentuale di volte che un impatto si è tradotto in un guadagno territoriale, la quantità di partecipazioni ad una ruck di un determinato giocatore, o quanti punti d’incontro di una squadra si sono risolti in meno di tre secondi. Statistiche che ci permettono di dare una lettura più accurata della prestazione di un giocatore o di una squadra, ma che sono ancora un passo indietro rispetto a ciò su cui lavorano i veri e propri addetti ai lavori: c’è ancora un grosso gap fra il racconto giornalistico e l’ambito tecnico dei professionisti.
Numeri per professionisti
“Le piattaforme che forniscono le statistiche mettono a disposizione una serie di dati che a loro sembrano interessanti e completi, ma all’interno di una squadra vengono misurati dati mirati che rispondono a precise richieste dello staff tecnico. Per fare un esempio, se l’allenatore della difesa ha impostato un certo tipo di lavoro sul campo, vorrà poi riscontrare con dei dati relativi la bontà o meno di quanto fatto” dice Simonluca Pistore, Performance Analyst della Federazione Italiana Rugby. Colui insomma che con dati e statistiche in relazione ad una partita di rugby ci lavora ogni giorno.
“Il dato aiuta perché può confermare o smentire quello che ti ha detto l’osservazione diretta della partita. Come in tutti gli ambiti i dati vanno interpretati: l’unico dato totalmente oggettivo sul fatto che una partita sia andata bene o male, sul quale non si discute, è il punteggio. Dall’osservazione del gioco, poi, la quantità di dati che si possono trovare è infinita, la capacità di un buon tecnico è saper scegliere quali di questi dati, partita per partita, sono più interessanti rispetto agli altri. E questo varia in rapporto a ciò che la squadra ha fatto in campo, al piano di gioco e alle aspettative.”
Gli analisti professionisti fanno un lavoro ulteriore, specialistico e artigianale, per costruire delle analisi dedicate e utili al loro specifico contesto. Indici, cifre e numeri che quasi mai emergono al di fuori dell’ambiente.
“Il nostro è un lavoro continuo, senza fine. Per ogni partita facciamo un report che arriva anche a una quindicina di pagine, con una sezione su tutto l’ambito del tempo effettivo. Quindi minutaggi, ball in play, rapporto fra lavoro e recupero, quanto tempo passato in attacco e quanto in difesa, una analisi del numero di fasi per sequenza, il numero di sequenze in rapporto alla loro durata. Poi ci sono tutti gli aspetti legati al territorio, a dove si è giocata la partita, al possesso” spiega Pistore, sottolineando che tutto questo lavoro riguarda solamente uno dei contesti di analisi, quello appunto del tempo effettivo.
Ci sarà quindi una analisi altrettanto dettagliata della fase di attacco, ad esempio. Lavoro dei sostegni, del portatore di palla, velocità di uscita del pallone dal punto d’incontro, analisi della prima fase di gioco e dell’intera sequenza di gioco. E così via.
La quantità di numeri a disposizione si alza quindi vertiginosamente, scendendo fino a un livello di dettaglio microscopico: “Abbiamo una statistica, ad esempio, per il tempo che un giocatore impiega a rialzarsi e tornare in posizione utile dopo un placcaggio – racconta ancora Pistore – Basandoci sull’osservazione di una gran quantità di partite, stabiliamo un parametro temporale standard entro cui un giocatore deve aver compiuto il placcaggio, essersi rialzato e tornato utile. Da lì, poi, misuriamo e guardiamo nella singola prestazione quanti giocatori riescono a stare nel parametro per quante volte.”
In altri sport, l’accesso a statistiche avanzate e indici approfonditi al di fuori degli ambienti tecnici ha raggiunto negli ultimi anni, o sta raggiungendo in questo momento, un altro livello. Gli sport americani sono capofila in questo, ma anche il beneamato calcio della nostra penisola incomincia a inseguire. Per quanto riguarda il rugby si tratta di una strada ancora tutta da esplorare.
Lorenzo Calamai
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