Il pilone della Scozia, fra i migliori del Torneo, si è riconquistato il proscenio dopo vicende davvero difficili
La maglia numero 1 della nazionale scozzese ha avuto un solo padrone durante le quattro gare disputate fin qui del Sei Nazioni 2020. Dietro il tessuto blu scuro si sono mosse le forme ipertrofiche di Rory Sutherland da Melrose, mille abitanti nel sud della Scozia, la regione dei Borders.
Un pilone esplosivo, discreto portatore di palla e gran lavoratore nel punto d’incontro, Sutherland si è distinto soprattutto per le sue grandi doti in mischia chiusa: ha portato a spasso per i terreni del Torneo Giosué Zilocchi, Mohamed Haouas (fin quando è rimasto in campo) e nientemeno che Tadhg Furlong, competendo alla pari con Kyle Sinckler sotto il diluvio durante la Calcutta Cup.
Una fame agonistica, quella espressa dal prima linea di Edinburgh, che affonda le radici nella storia di una carriera interrotta all’apice, ormai nel 2016. A gennaio di quell’anno Vern Cotter, allora allenatore della nazionale scozzese, convoca il giovane Sutherland per l’imminente Sei Nazioni, e a marzo lo fa debuttare contro l’Irlanda.
A giugno il pilone si guadagna altre due apparizioni sul palcoscenico internazionale contro il Giappone, fra cui la sua prima apparizione da titolare. La carriera di Sutherland, a quel punto in rampa di lancio, si arresta di colpo ad ottobre quando, durante semplici operazioni di riscaldamento, si rompe entrambi gli adduttori, i muscoli che nella coscia collegano femore e bacino consento il movimento delle gambe.
Un infortunio tanto grave quanto raro: “Ogni specialista che ho visto ha detto che era difficilissimo che chiunque potesse tornare a giocare dopo una ricostruzione bilaterale degli adduttori – ha raccontato il giocatore – Avevo dei dolori al basso addome, ma avevo cominciato a essere titolare per Edinburgh e non volevo sprecare la mia opportunità. Non ho detto niente, non mi sono fatto vedere e tutto è andato in malora.”
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Dopo l’operazione chirurgica, un’infezione ha colpito il muscolo ricostruito, costringendo Sutherland a muoversi il meno possibile e a spostarsi solamente con l’aiuto di una sedia a rotelle e con la cura costante di sua moglie. Con il passare delle settimane, ai problemi fisici si sono aggiunti anche quelli di salute mentale.
“Il mio secondo figlio, Hamish, era appena nato e con i bambini piccoli, le nostre carriera in ascesa, stavamo andando alla grande, tutto per il meglio, e poi tutto è crollato. Mi passavano per la testa un sacco di cose: se sarei tornato a giocare, se fossi riuscito a tornare ad essere lo stesso giocatore. Uno dei problemi più grossi era quello economico: che cosa avrebbe fatto la mia famiglia se non fossi potuto tornare in campo? Come avrei potuto essere in grado di aiutarli?”
E poi le cose sono pian piano cambiate quando Ben Atiga, ex giocatore neozelandese di Edinburgh, incominciò ad andare regolarmente a casa Sutherland. Atiga aveva fondato Rugby for Life, un programma di supporto psicologico e di pianificazione di carriera ai primi passi: con il supporto dell’ex compagno, Sutherland ha incominciato a progettare un possibile futuro lontano dalla palla ovale, e a combattere poco a poco ansia e depressione.
Dopo la testa, è arrivato anche il corpo: dopo circa un anno, ha potuto ricominciare a camminare. Grazie all’appoggio dello staff medico e ai preparatori atletici del club e della nazionale ha reimparato a muoversi, fino a riuscire di nuovo a correre: c’era luce, dopotutto, alla fine del tunnel. Quella luce erano i fari del Murrayfield: dopo quattro anni, la maglia della nazionale se l’è riconquistata.
Lorenzo Calamai
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