Monumenti: Jacques Burger

Ripercorriamo la carriera e la vita del più forte giocatore mai espresso dalla Namibia

ph. Sebastiano Pessina

Ci sono storie che vanno raccontate partendo dall’inizio, altre dalla fine, alcune dalla loro metà, ed è questo il nostro caso. Il giorno dopo la finale della Coppa del Mondo 2011, vinta dalla Nuova Zelanda sulla Francia, l’IRB pubblicò la sua lista dei migliori cinque giocatori di quell’edizione iridata: tra i tanti, furono scelti come stelle i freschi Campioni Dagg e Kaino, il gallese Roberts, l’irlandese O’Brien e Jacques Burger. Ma come, un giocatore di una squadra che non aveva raccolto nemmeno un punto in classifica? Che rappresenta una Nazione che in sei Mondiali non ha vinto neanche una volta? Uno che fino a due anni prima nemmeno era titolare ai Bulls in Currie Cup? No, la storia di Jacques Burger non ha molto di ordinario nel suo script, ed è molto lontana dai canoni dell’eroe omerico bello e vincente.

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Un (lungo) inizio di carriera da sconosciuto
La Namibia è un posto letteralmente unico, gigantesco (oltre otto volte l’Italia) ma praticamente disabitato con poco più di tre persone per chilometro quadrato. Un enorme parco naturale, bellissimo dal punto di vista faunistico, dove i pochi locali risiedono nelle “città” o sparsi per le varie farm. Proprio nella località più grande, la capitale Windhoek, Burger è nato nel 1983, e non è che l’inizio della sua vita rugbystica facesse presagire chissà quali mirabolanti risultati. Rispettare l’ordine cronologico delle cose è fondamentale per capire quello che è riuscito a fare, visto che dopo un inizio a Griquas, una modesta parentesi francese ad Aurillac, nel 2008 il terza linea arriva ai Bulls, crescendo ma non riuscendo a trovarsi a suo agio. Il momento di provare a sfondare, termine quanto mai opportuno per Burger, e andare overseas alla fine arriva, spinto da una chiamata di Eddie Jones, ai tempi allenatore dei Suntory Goliath. Una bella cascata di yen, con però poche possibilità di entrare nell’olimpo ovale vista la modestia del campionato giapponese di quelle stagioni. “Avevo capito che non avrei mai giocato nel Super Rugby, dunque decisi di cambiare vita e stavo per scegliere il Giappone” ricorda “ma poco prima di firmare mi contattò Brendan Venter proponendomi di giocare per i Saracens. I soldi erano molti di meno, ma volevo provare a confrontarmi con uno dei campionati più duri del mondo”. E qui sta la madre di ogni sliding doors, perché se avesse prevalso il portafoglio sull’ambizione personale difficilmente quel report dell’IRB lo avrebbe incluso tra i cinque protagonisti del Mondiale 2011.

LA scelta giusta, il cuore davanti al portafoglio
A Londra infatti Jacques Burger riesce a essere al posto giusto nel momento giusto: una squadra affamata di successo che non aveva ancora mai vinto un titolo, con un anima molto sudafricana, in una Premiership che è sempre stato terreno di caccia privilegiato per chi sa come darci dentro a livello fisico. E su questo il namibiano non si è mai, letteralmente mai, risparmiato: a fine carriera saranno qualcosa come 60 gli infortuni subiti dal suo corpo. Senza questa voglia di sacrificarsi però difficilmente sarebbe stato praticamente sin da subito titolare, in un campionato che i Sarries riescono a portare fino all’ultimo atto, dove però vengono dolorosamente battuti 33-27 dai Leicester Tigers di Castrogiovanni (titolare e in campo 51 minuti in quella partita). Dolorosamente perché erano avanti di un punto a quattro minuti dalla fine, prima di subire la marcatura ammazza sogni di Hipkiss, una meta che tra l’altro lasciò a bocca asciutta anche gli azzurri Aguero e Ongaro. Tutto da rifare dunque, anche se l’astinenza durò poco: nel 2010/11 secondo posto in regular season e nuova finale contro Leicester, il demone da sconfiggere per scappare dall’inferno e arrivare in paradiso. Di quel campionato Burger ricorda: “Mi sentivo un giocatore chiave della squadra, in un gruppo incredibile. Avevamo enorme fiducia in noi stessi, sapevamo che anche sotto di 20 punti potevamo rimontare e vincere contro chiunque. E non era arroganza, ma coscienza dei nostri mezzi e credevamo nel lavoro fatto”. Quella partita, giocata il 28 maggio 2011 di fronte a 80.016 spettatori a Twickenham, entrò direttamente nel mito della Premiership: coi Sarries avanti 22 a 18, i Tigers giocarono dal 79esimo, e per otto minuti oltre i regolamentari, praticamente a cinque metri dalla linea di meta avversaria. Burger e compagni resistettero ad una prima azione lunga qualcosa come 32 fasi, prima di commettere un fallo riuscendo però a recuperare l’ovale grazie a un tenuto (e come se no?) degli avversari. La storia fu scritta, anche per Matias Aguero, e il namibiano venne eletto a fine stagione “Player of the Year” da parte degli altri giocatori, a testimonianza di come tutti in campo si fossero accorti di quel gladiatore dalla chioma pazza e dal naso storto, capace di essere dominante oltre i freddi dati statistici.

Gli ultimi minuti di Leicester-Saracens con l’incredibile difesa finale dei Sarries

Ancora una volta Re d’Inghilterra
Allora sì che arriviamo al Mondiale neozelandese con un bel pedigree. In mezzo sette anni di convocazioni con la Nazionale, in un avventura iniziata nel 2004 contro lo Zambia, e passata anche per il torneo iridato del 2007. Di risultati pochini, il rugby non è sport individuale e individualista, e il fatto di giocare per una Nazionale di terza fascia è estremamente penalizzante, ma il divieto di pensare che una partita con i Welwitschias fosse meno importante di una finale di Premiership è assoluto. Burger è questo, prendere o lasciare, e il suo dare tutto lo ha portato, oltre che a placcare in avanzamento, anche sui tavoli dei chirurghi. Il 2012 può tranquillamente catalogarsi come l’anno nero della sua carriera, con un grave infortunio al ginocchio che ha comportato il conseguente inserimento di placche metalliche nel suo corpo, sempre più vicino al limite della rottura. “In pochi avrebbero creduto ad un mio ritorno, sono rimasto fuori praticamente per due anni. È stata durissima rimettersi in piedi, il dolore era tanto così come i segnali che sembravo essere arrivato alla fine. Ho stretto i denti e ho deciso di vivere ogni partita come se fosse una bonus track, un regalo”. Diciamo che si sono visti rientri peggiori, coi Saracens che hanno avuto la pazienza di aspettarlo ributtandolo in campo nella stagione 2014/15. Quella Premiership ebbe un finale di regular season incredibile: dietro a Northampton e Bath, arrivarono in tre a quota 68 punti: Leicester, Saracens ed Exeter, coi Chiefs beffardamente esclusi dai playoff per via della differenza punti rispetto ai londinesi (+145 contro +226). Questa volta il regalo lo ha fatto il destino, i rossoneri ci hanno messo il resto, battendo prima Northampton 29-24 e poi Bath 28-16 in finale, scrivendo per la seconda volta il proprio nome nell’albo d’oro del campionato inglese. Sui 160 minuti giocati, il namibiano che nemmeno doveva rientrare dall’infortunio ne ha giocati…160. Titolare inamovibile con la sua maglia numero 7, come sempre senza entrare sul tabellino della partita ma sulle ossa degli avversari.

Gli highlights di Bath-Saracens, seconda Premiership vinta da Jacques Burger e compagni

Basta, non ne posso davvero più. Un cambio vita particolare (fino a un certo punto)
Il 2015 poi è stato l’anno dei Mondiali inglesi, il terzo torneo iridato nel quale Burger ha vestito la maglia della nazionale namibiana. Dopo l’ovvia sconfitta nel match d’apertura contro la Nuova Zelanda, i Welwitschias hanno perso 35-21 contro Tonga, in un match nel quale il numero 7 ha, ancora una volta, dato tutto quello che aveva, segnando due mete e trascinando i compagni. Il rimpianto più grosso rimane però la terza partita con la Georgia: i Lelos hanno trovato pane duro per i loro denti, vincendo solamente per 17-16, e togliendo per due punti quella che sarebbe stata la prima vittoria ai Mondiali della Namibia. Il match è stato anche l’ultimo della carriera internazionale di Burger, che colpito duro ha dovuto abbandonare il campo dopo 10 minuti, chiudendo così la sua carriera in Nazionale alla trentaseiesima presenza. Il suo corpo ormai stanco è durato ancora una stagione, un altra Premiership coi Saracens giocata con numeri inferiori rispetto alle precedenti (6 partenze da titolare e 11 gare complessive, oltre a 2 partite in Heineken Cup). La grande corsa si è ufficialmente conclusa domenica 1 maggio 2016 (la festa dei lavoratori, una giusta coincidenza per lui che aveva un work rate incredibile) in una gara vinta 23-14 contro Newcastle, prima della quale Burger ha ricevuto la standing ovation dei suoi tifosi entrando in campo con la famiglia e chiudendo una carriera straordinaria. I Sarries poi quella Premiership l’avrebbero anche vinta, battendo Exeter 28-20 in finale, ma il guerriero namibiano si era fatto da parte poco prima sfiancato e ormai conscio di non esser più in grado di dare quello che vorrebbe sul campo da rugby.

Un tributo alla carriera di Jacques Burger

Finita la carriera ovale, Burger ha deciso di concentrarsi su un’altra via, una strada già percorsa in passato dai giocatori sudafricani o namibiani. Nel 2008 aveva infatti comprato una fattoria nella zona di Stampriet, in una zona naturalisticamente stupenda, e decisamente isolata dato che bisogna fare oltre 20 chilometri per arrivare alla casa più vicina. “Il rugby per me è sempre stato speciale, ma devo dire che l’Africa mi fa sentire vivo per davvero. È un posto speciale, un mix perfetto di spazio e natura. Qui ci sono spazi confinati, l’orizzonte è infinito e questa vita mi da grande soddisfazione”. Ha scelto dunque di chiudere con l’ovale e lavorare la terra, per continuare a dimostrare di essere un vero duro. Come se ci fossero ancora dei dubbi.

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