Stop ai campionati: in palio c’è il futuro del rugby, non scudetto o promozioni

L’unico pensiero del movimento ovale deve essere di riuscire a ripartire quando finirà l’emergenza

futuro del rugby -

ph S. Pessina

Sono passate 24 ore dalla comunicazione ufficiale da parte della Federazione Italian Rugby che ha messo la parola fine sulla stagione 2019/20. Una decisione che, come recita testualmente il comunicato federale, “determina la mancata assegnazione dei titoli di Campione d’Italia previsti dai regolamenti e, al tempo stesso, di tutti i processi di promozione e retrocessione. La ripresa dell’attività domestica per la stagione 2020/21 sarà successivamente normata dal Consiglio e comunicata al movimento.”

Una scelta, quella presa dal Consiglio Federale, che non ha precedenti nella storia del rugby italiano dal secondo dopoguerra a oggi ma che soprattutto arriva prima di quella di qualsiasi altra federazione e lega sportiva italiana. Una decisione drastica e, per quanto senz’altro difficile e sofferta, quantomai giusta e tempestiva. Per molteplici ragioni. La prima quasi ci imbarazza scriverla, sopratutto su un sito che si occupa dello “sport dei grandi valori”. Ma, visti alcuni comportamenti – leggi società che si sono allenate -, reazioni di dirigenti, messaggi sui social di alcuni giocatori, membri di club e appassionati, ci corre l’obbligo di farla: la tutela della salute delle persone deve venire prima di tutto, a maggior ragione se parliamo di sport, dilettantistico o professionistico che sia. Scudetti, promozioni, salvezze e altri meriti sportivi sono pensieri che devono passare in secondo piano in queste situazioni.

Allo stato attuale poi, sarebbe un’utopia anche solo pensare che la vita torni ad essere quella di tutti giorni in tempi ragionevoli. Anche quando ciò dovesse avvenire il rugby, sport di contatto per eccellenza, sarebbe probabilmente uno di quelli che necessiterebbe dei tempi più lunghi per poter riprendere i campionati senza che si rischi di compromettere l’incolumità dei giocatori, che, da diverse settimane, non si allenano ne normalmente, ne in gruppo e soprattutto facendo contatto. Contatto che rappresenta un’ulteriore “aggravante” per il nostro sport che è quanto di più lontano ci sia dal mantenere le distanze di sicurezza, fattore che per diverso tempo dovrà necessariamente influenzare le nostre vite.

Sorprendono a questo proposito anche le parole del Presidente del CONI Giovanni Malagò che, da buon padrone di casa presenzia spesso alle partite dell’Italrugby all’Olimpico e che quindi il nostro sport dovrebbe conoscerlo bene.

Nel corso di un intervento a Radio24 ha infatti affermato che “è una scelta opinabile, si può discutere, ma è chiaro che non hanno voluto aspettare. Non sono contrario alla decisione della Federazione, non condivido il timing. Non hanno voluto aspettare una data condivisa”. Salvo poi però dire “Si arriverà a quello che ha detto il rugby anche in altri sport.” Si sarebbe quindi dovuto aspettare che il mondo del pallone finisse di litigare e attendere l’annuncio ufficiale dello stop di tutto lo sport italiano da parte di Malagò?

Nel frattempo, per introdurre il secondo aspetto legato alla decisione della FIR, quanto sarebbe costata ancora l’attesa di questo annuncio ai club ovali, anche e soprattutto ai più piccoli? Parliamo di soldi, ma non solo di quelli. Il comunicato federale si conclude con questa frase: “a tutela di tutto il movimento, saranno varate delle misure di sostegno straordinarie approntate anche in base alle decisioni che verranno prese della Presidenza del Consiglio nelle prossime settimane, in coerenza con le indicazioni del Consiglio dei Ministri, del CONI e degli organi internazionali di cui FIR è membra” fissando già un nuovo Consiglio Federale per l’uno di aprile. Insomma un primo attestato di vicinanza al movimento e la rassicurazione che il vero problema del dopo emergenza è già ben chiaro e al centro delle preoccupazioni. Perché il futuro del nostro movimento starà nella capacità di riuscire a ripartire. Ed è li che vanno concentrati ora gli sforzi di tutti e le risorse. Nel trovare le forze, non solo economiche, per onorare gli impegni, per riprendere l’attività, per trattenere i piccoli e grandi sponsor, per riportare sui campi da gioco dirigenti, staff ma sopratutto i giovani che, se qualcuno per caso lo avesse dimenticato, sono la vera linfa vitale dello sport.

Ecco quindi perché oggi è più che mai è importante mettere da parte i piccoli traguardi personali a brevissimo termine e capire che bisogna lavorare davvero tutti #insieme (per usare l’hashtag ufficiale del rugby italiano). Ecco perché attività come quelle dei ragazzi di Viadana e di Rovigo o di Maxime Mbandà, che si sono messi a servizio della comunità, diventano un paradigma da cui, prima ancora di andare a sbandierarli fuori dal nostro ambiente, dovremmo tutti imparare qualcosa.

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