L’accanimento, per mere ragioni economiche, a voler tenere in vita la stagione potrebbe essere un boomerang per l’intero movimento già nel breve periodo
Nella giornata di ieri, la Gallagher Premiership ha annunciato la sospensione a tempo indeterminato della propria stagione – che sarebbe dovuta ripartire il prossimo 24 aprile -, rendendo nota, contestualmente, la volontà di riprendere e terminare l’edizione ’19/’20 del torneo (giocando tutte e 9 le giornate restanti, più i playoff, spostando ovviamente la finale avanti nell’anno solare), non appena la cosa sarà resa possibile dalla situazione sanitaria in UK.
Una linea di pensiero su cui per ora sono fermi anche Top 14 e Pro14 (che però da qualche settimana non hanno più fatto proclami di alcun tipo), nonché dai massimi tornei calcistici del continente, al contrario della decisione di annullare la stagione presa della FIR, il cui esempio è stato seguito, in pochi giorni, anche da basket e pallavolo, che hanno recentemente intrapreso la stessa strada di Federugby, azzerando l’annata agonistica.
Una volontà quella della lega inglese sbandierata con un comunicato fumoso – in cui non ci sono ovviamente date ed indicazioni/previsioni accurate riguardo alle tempistiche per una possibile ripartenza – e che non sembra tenere in considerazione la reale e complessa situazione contingente presente sul territorio europeo, ancor più su quello del Regno Unito, dove l’epidemia si è abbattuta solo nelle ultimissime settimane, almeno tre di ritardo rispetto all’Italia.
Una speranza – per certi versi alle soglie dell’utopia -, dunque, più che un vero e proprio piano di ripartenza, per provare a tutelare l’hic-et-nunc economico, che, però, andrebbe verosimilmente ad impattare negativamente almeno anche sulla prossima stagione – ammesso e non concesso che si riesca a ripartire in settembre – e che potrebbe risultare controproducente ragionando su un futuro a medio termine. Ne vale veramente la pena?
Intendiamoci, se si avesse almeno una possibilità concreta e realistica – su base scientifica – di ripartire, ad esempio, il 20 maggio o il 5 giugno, attendere e provare a salvare la stagione apparirebbe come un fatto logico, come una scelta irreprensibile. Nello stato di assoluta incertezza attuale, con la metà di aprile che si avvicina a gran velocità, e le squadre che sono ancora ben lontane anche solo dal poter tornare ad allenarsi assieme, ancor di più dall’inserire il contatto (gli esperti dicono che dalla ripresa degli allenamenti ci vorranno circa 45 giorni per rimettere gli atleti nelle condizioni di disputare una partita vera in sicurezza), il pensiero di ricominciare, nonché completare integralmente – con tre mesi di follia, caratterizzati probabilmente da 11 weekend di gioco filati – l’annata agonistica sta lentamente assumendo connotati di contro intuitività sempre più forti.
Se, su un ideale piatto della bilancia, da un lato ci sono i soldi – pur preziosissimi – dei diritti tv (non quelli del botteghino, visto che si giocherebbe verosimilmente a porte chiuse o comunque dovendo rispettare il criterio della distanza di sicurezza) e quelli degli sponsor, che, però, va sempre sottolineato, non hanno nessun particolare desiderio di vedere il loro nome associato ad eventi che potrebbero generare polemiche spiacevoli e ledere la loro immagine. La volontà vigorosa di un’organizzazione (Premiership, Champions League o corsa ciclistica che sia) che spinge per ripartire, nonostante una situazione drammatica in atto ed il numero di vittime in costante crescita, potrebbe ripercuotersi molto negativamente sulla percezione generale della popolazione, ergo dei potenziali consumatori.
Dall’altro, pare oggi impensabile garantire a breve termine la salute di giocatori e staff (e delle loro famiglie) coinvolti in allenamenti/partite e risulta anche complesso gestire in modo lineare la calendarizzazione della prossima stagione e – conseguentemente – tutte le situazioni contrattuali border line di quei giocatori che hanno firmato per una squadra nuova in vista del prossimo campionato, ma, che, a due mesi e qualche settimana dall’inizio ufficiale del ’20/’21, non hanno la più pallida idea di dove/come cominceranno la loro annata agonistica.
Oltre al fatto che il calendario della Premiership 2019/20, come quello di qualsiasi finale di stagione nazionale , dovrebbe fare i conti anche con gli eventuali recuperi del Sei Nazioni a fine ottobre, il mese di Test Match a novembre, nonché con una super compressa calendarizzazione della stagione successiva della stessa Premiership. Altra aspetto, non del tutto trascurabile, a quando l’inizio delle Coppe Europee visto che non sapremmo quali squadre inglesi sarebbero qualificate per Champions e Challenge Cup 2020/21?
Insistere in questa agonia, cercando in tutti i modi di tenere in vita una stagione con tale accanimento terapeutico, per provare a mungere un’ultima volta la florida mammella dei diritti tv, potrebbe anche dare liquidità importante nell’immediato – a costo anche di correre il rischio di sballare, deformare e far collassare valori e struttura del rugby odierno -, eppure questo appare, intuitivamente e non solo, come il momento migliore per fermarsi e progettare un futuro migliore, alzando la testa dall’oggi e provando a guardare costruttivamente più in là, sfruttando questi mesi di fermo per lavorare ad una soluzione che possa tutelare nel lungo periodo tutti coloro che con il rugby ci vivono (comprese le migliaia di persone con impieghi di vario genere, extra-campo, in ogni club), che sia nell’iper professionismo di Inghilterra e Francia, o in quello molto meno esasperato del nostro campionato.
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