Abbiamo dato uno sguardo, in compagnia del giovane tallonatore zebrato, al suo percorso pro
A Llanelli, in un pomeriggio di inizio ottobre 2019 che non passerà alla storia del rugby italiano, le Zebre – prive della folta truppa internazionale, con tanti giovani alle prime vere esperienze sul palcoscenico del Pro14 – vanno incontro ad una delle loro giornate più difficili.
In un Parc Y Scarlets semi vuoto, nel bel mentre del Mondiale, i padroni di casa si presentano con diversi internazionali (da Rob Evans a Johnny McNicholls – all’epoca ancora non selezionabile per i dragoni -, passando per Samson Lee e Steff Evans), desiderosi di dimostrare a Warren Gatland come avesse fatto un errore non portandoli in Giappone.
L’onda scarlatta è decisamente alta. Troppo alta per i giovani ragazzi di Bradley, diversi dei quali alle primissime esperienze nel torneo celtico. I gallesi stritolano la franchigia ducale 54-10, costringendo gli italiani ad incassare almeno 50 punti per la terza volta in stagione.
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Sembra una di quelle partite da cancellare in toto. Da rimuovere integralmente, il prima possibile, dalla mente di squadra, staff e tifosi. Eppure, qualcosa, o per meglio dire qualcuno, che lascia un segno positivo, per l’ennesima volta, c’è e non può passare inosservato.
Marco Manfredi, tallonatore classe ’97 – alla stagione d’esordio con il team emiliano, dopo l’esperienza da permit player maturata nell’anno precedente -, sporca il tabellino zebrato con l’unica meta del pomeriggio, ma, soprattutto, gioca una sua partita dentro la partita, con straordinaria concentrazione ed efficacia, in attacco e in difesa, come se la gara fosse sempre in bilico, ergendosi – con margine – a miglior multicolor del match.
L’eccellente standard prestativo del nativo di Friburgo in Brisgovia (la madre di Manfredi è tedesca) si conferma tale per tutto l’arco del campionato, permettendo al ragazzo veneto di essere considerato tra i migliori 7 giovani della Conference A del Pro14 ed attirare l’attenzione anche del selezionatore azzurro Franco Smith, che lo convoca per il primo raduno azzurro del 2020.
Un’ascesa impetuosa che si arresta, almeno temporaneamente, ad inizio gennaio, quando un’operazione al menisco costringe il tallonatore ad uno stop di quattro mesi. Un ostacolo inatteso, che, tuttavia, Manfredi sta superando di slancio.
“L’intervento chirurgico è riuscito perfettamente ed il recupero sta procedendo alla grande. Mi è dispiaciuto rinunciare alla possibilità di giocarmi le mie carte in ottica Sei Nazioni, ma abbiamo valutato che l’operazione fosse la scelta giusta, al momento giusto. Il tutto confermato anche con il senno di poi. Fortunatamente, peraltro, la parte fondamentale della riabilitazione è andata in scena prima dello scoppio dell’epidemia, anche se devo dire che, pure a distanza, lo staff sanitario delle Zebre mi sta seguendo alla grande in questa quarantena. Sto rispettando tutti i dettami molto attentamente, e negli scorsi giorni mi sono preso una Watt-bike con cui sto cercando di lavorare al meglio anche sotto il profilo cardio, per farmi trovare pronto sotto ogni profilo quando si tornerà a pieno regime. Provo a sfruttare al meglio questo strano periodo, in cui sono a casa da solo. Anche se ci tengo a ringraziare la mia famiglia, tutti gli amici e la mia ragazza che mi stanno tenendo compagnia virtuale (sorride, ndr)”, esordisce il prima linea veneto, dalla sua abitazione di Parma, sprizzando entusiasmo per la qualità del recupero e non riuscendo a nascondere l’incredibile voglia di rugby che si porta dentro.
“Non posso nascondermi: l’ovale mi manca molto. Il rugby è la mia più grande passione ed al contempo anche il mio lavoro. Potrei definirla un’ossessione positiva: ci penso 24 ore al giorno, curando qualsiasi aspetto ad esso legato, da quello che può accadere sul campo a tutto ciò che è correlato all’ovale, al di fuori del rettangolo verde, come alimentazione e sonno”, spiega l’ex San Donà, sempre a caccia dell’eccellenza.
“Qualcuno ha apprezzato molto la mia stagione prima dello stop, ma personalmente non sono mai soddisfatto sino in fondo di quello che faccio. Quando rivedo una partita, e nello specifico un’azione, non recepisco granché i complimenti per una cosa fatta bene, ma sono molto più attento a cosa non ha funzionato ed alle indicazioni dello staff. Ad esempio, non sono pienamente soddisfatto del mio lancio. Vorrei diventasse ancora più stabile: ci dedico sempre più tempo, cura e attenzione”, prosegue con impeto, sottolineando come sia l’unica via per diventare un atleta più consistente ed apprezzato da compagni, allenatori e tifosi.
“Avendo vissuto l’esperienza di Montpellier posso garantire che persino i più grandi giocatori del Mondo fanno sempre qualche errore, figuriamoci un ragazzo giovane come me, che ha ancora tantissimo da imparare. ”
La lingua del rugby
Già, l’accademia di Montpellier, dove Manfredi – dopo l’esordio da giovanissimo in Eccellenza con San Donà ed un ottimo Mondiale Under 20 nel 2016 – sbarca ad inizio stagione ’16/’17, imparando/raffinando diverse lingue, su tutte quella del rugby.
“Quelli in Francia sono stati due anni importanti per la mia crescita complessiva. Dopo il Mondiale giovanile inglese, nel 2016, mi cercarono e mi offrirono un contratto per la loro squadra degli Espoirs. Ho avuto modo di imparare tanto sul campo, allenandomi regolarmente con i fuoriclasse della prima squadra, come Nadolo, Fall o Haouas, tutti grandi amici – prodighi di consigli e sempre pronti ad aiutarti -, e potendo lavorare, in chiusa, assieme ad elementi del calibro dei fratelli Du Plessis. Fare un training era come partecipare ad una lezione universitaria a tema mischia ordinata. E altrettanto fuori: ho imparato perfettamente il francese, anche grazie alle lezioni messe a disposizione dalla società, e, avendo a che fare con molti sudafricani, ho migliorato moltissimo anche la lingua inglese. Se fossi rimasto un altro paio d’anni sarei diventato JIFF (giocatore di formazione francese) e il mio status nelle gerarchie della squadra sarebbe verosimilmente cambiato (Le squadre di Top14, possono avere solamente 15 giocatori non JIFF, in rosa). Però, sentivo la mancanza dell’Italia e ho percepito che l’estate 2018 fosse il momento giusto per iniziare una nuova avventura nel mio paese. Anche perché nell’ambiente si parlava del fatto che in Federazione si volesse puntare forte sulla nuova generazione anche in ottica rugby internazionale, e volevo giocarmi al meglio la mie carte in patria”, chiarisce il numero 2 zebrato, accennando al suo approdo al Calvisano.
Campione d’Italia
“Sin da piccolo avevo dei grandi sogni ovali: debuttare nel massimo torneo, indossare una maglia azzurra e vincere campionati, nel maggior numero possibile. Il titolo dello scorso anno ha rappresentato la più grande soddisfazione personale nel rugby. Spero ovviamente ne arrivino anche tante altre. Peraltro, è stato un successo niente affatto semplice, al termine di una stagione iniziata in salita, e raddrizzata settimana dopo settimana – anche grazie al lavoro di un allenatore come Massimo Brunello, che ho avuto come coach anche nelle varie rappresentative giovanili di area -, ottenuto in finale (giocò titolare, ndr) contro una grandissima squadra come Rovigo”, racconta ancora entusiasta Manfredi.
Una stagione, quella nel bresciano, in cui il nativo di Friburgo si conquista dapprima la titolarità, nonostante una concorrenza di assoluto valore in Top 12, e poi una chiamata dalle Zebre (con cui aveva giocato una partita da permit nel ’18/’19) – per l’anno in corso -, dove lascia immediatamente un segno e ritrova Danilo Fischetti, altro giovane azzurro rampante, compagno di prima linea già a Calvisano, con cui, peraltro, condivide diverse caratteristiche tecniche.
“Anche a Parma, l’inizio di stagione non è stato facile. Ma abbiamo tra gli avanti abbiamo trovato presto una quadratura del cerchio importante, anche grazie al feeling già esistente tra di noi. Conoscendoci bene, e avendo un rapporto particolarmente positivo dentro e fuori dal campo, sia con Danilo (Fischetti, ndr) che con Giosuè (Zilocchi), siamo riusciti a trovare un equilibrio notevole ed a performare con qualità”, chiarisce, riferendosi in particolare alla mischia chiusa.
Rugby(sta) del futuro
Gli standard posti in essere da Manfredi non passano inosservati nemmeno quando ci si focalizza su altri fondamentali del gioco, e, nonostante una modestia palpabile, sollecitato sulle sue qualità, anche il ragazzo di Jesolo si apre e ci svela alcuni segreti dietro alle sue prestazioni.
“Il fatto di riuscire a dare un contributo effettivamente così efficace nel gioco aperto passa anche dalle stagioni disputate come primo centro, e poi come flanker, ai tempi delle giovanili. Qualcosa mi è rimasto (sorride, ndr). Nel rugby moderno, ormai, è indispensabile avere prime linee con mobilità ed ottime mani. Anche solo rispetto a quando ho iniziato ad affacciarmi al gioco dei grandi, le richieste in tal senso a piloni e tallonatori sono aumentate. Il che mi piace molto, amando il fondamentale del passaggio ed i lavori specifici ad esso correlati in allenamento. La cosa che più amo, però, e che ricerco nel corso dei match è l’essere dominante sotto il profilo fisico. In attacco mi prefiggo sempre di guadagnare la linea del vantaggio, quando reputo opportuno caricare palla in mano. In difesa di essere puntuale ed incisivo al placcaggio”, sintetizza Manfredi.
Caratteristiche che gli serviranno, nei prossimi mesi, per provare a conquistarsi un posto da titolare, sia con il club che con la nazionale, pur consapevole, però, di aver davanti il capitano degli azzurri, Luca Bigi. “Luca è una persona speciale, ed un vero amico. Noi giovani abbiamo grande rispetto per lui e per Oliviero (Fabiani), ma non abbiamo nessuna intenzione di farci spaventare dalla concorrenza. Anzi, questa competizione in squadra ci galvanizza ancor di più. Ed io sono tranquillo. So che, se lavoro bene, posso affidarmi con serenità all’unico giudice supremo per coach Bradley, il campo”.
Ovviamente, senza accontentarsi mai, nello stile più tipico di Marco Manfredi.
Matteo Viscardi
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