Il 4 maggio 1995 il capitano dell’Inghilterra attaccò la RFU: un passo cruciale verso la trasformazione del gioco
In una sera di inizio maggio del 1995, a meno di tre settimane dall’inizio della Rugby World Cup, tante televisioni inglesi sono sintonizzate su Channel 4 per assistere a The Fair Game, un programma di approfondimento sul rugby che quella sera ospita Will Carling, il capitano della nazionale.
Non un capitano qualsiasi: Carling ha guidato l’Inghilterra allo Slam nel Cinque Nazioni 1991 e 1992, ha portato l’Inghilterra in finale alla Rugby World Cup del ’91 e in quel momento è reduce dal suo terzo Grande Slam, quello del 1995, segnando sei mete in quattro partite nel Torneo. Insomma, la definizione un pezzo da novanta gli sta stretta, in quelle settimane.
Il momento storico, poi, è complesso. Almeno per quanto riguarda la palla ovale. I giocatori premono per la definitiva professionalizzazione del gioco, ma alle federazioni, specie una conservatrice come la Rugby Football Union inglese, la cosa non piace.
“Il rugby è uno sport che si gioca per piacere, nel tempo libero di una persona e non per un guadagno economico” aveva statuito Dudley Wood, a capo della federazione inglese. Una visione probabilmente un po’ ipocrita: sebbene il gioco fosse amatoriale prima del 1995, non si può dire che non ci fossero soldi in ballo.
“Se il gioco fosse guidato in maniera professionistica – replicò Carling in diretta televisiva – non ci sarebbe bisogno di 57 vecchi tromboni ad amministrare il gioco in questo paese.”
Bomba atomica: il capitano dell’Inghilterra ha appena chiamato old farts, vecchi tromboni appunto, i dirigenti della sua federazione. Ovviamente la cosa fa ne più che un po’ di rumore: fa scandalo, fa titoli dei giornali, fa immediatamente partire quella particolare perversione della stampa a rinominare tutta la questione Fartgate.
Nel giro di 24 ore Will Carling viene privato della fascia di capitano. La sua partecipazione al mondiale in Sudafrica viene messa in dubbio. Il tema più profondo della discussione messo da parte.
“Sembra che chiunque nel mondo del rugby se la cavi meglio dei giocatori – aveva detto Carling – Questo gioco è qualcosa di più di un divertimento… quello che fa arrabbiare me e diversi altri giocatori è l’ipocrisia della situazione. Perché non siamo semplicemente onesti e diciamo che ci sono un sacco di soldi in questo mondo? Sta diventando un gioco professionistico.”
E tale divenne. Nonostante lo scandalo e la pubblica lettera di scuse scritta dal giocatore ai dirigenti, il suo ritorno a far parte della nazionale inglese e la riconsegna della fascia di capitano, meccanismi più grandi di una frase da titolo di tabloid erano in atto. Passarono appena quattro mesi prima che, effettivamente, il gioco del rugby finalmente si aprisse al professionismo.
Di quella scelta si può pensare che abbia rovinato i valori del gioco, ne abbia tradito le fondamenta, o che lo abbia semplicemente reso uno sport moderno. Quel che è certo è che il processo era in atto già ben prima che un capitano della nazionale inglese, convinto del proprio protagonismo, andasse davanti alle telecamere decidendo di far scoppiare una gigantesca polemica, mettendo a nudo la spaccatura fra la realtà di strada e la realtà di palazzo.
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