Una analisi del gioco d’attacco degli Azzurri, sulla base delle tre gare giocate nel Sei Nazioni 2020
Manca a tanti, probabilmente a tutti gli affezionati della palla ovale, il rugby in diretta. Per contro, questo periodo di stop forzato e prolungato ci ha dato la possibilità di fermarci a riflettere su un certo numero di temi, sia di campo che non. Ci ha dato la possibilità di tornare a vedere le partite del passato, e di riflettere su quello che è stato e su quello che sarebbe potuto essere. Quello che forse ancora manca, e che proviamo ad aggiungere adesso, è una riflessione strettamente inerente al campo su come sia cambiato bruscamente il modo di giocare degli Azzurri con Franco Smith, come abbiamo potuto intravedere nelle tre partite del Sei Nazioni 2020 disputate dall’Italia.
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Gioco generale
240 minuti non sono molti per farsi un’idea definitiva, e decisamente pochi per implementare al meglio una miriade di meccanismi, dettagli e idee tecniche che sicuramente il nuovo head coach della nazionale ha voglia di veder diventare realtà. Tuttavia, sono emerse chiare alcune intenzioni e un’impostazione di fondo del gioco azzurro piuttosto divergenti da quelle che l’Italia ha espresso negli anni di Conor O’Shea.
“Non è così facile passare dal rugby all’inglese di Conor, più fisico, a un gioco più in profondità come quello di Smith, ma è anche una sfida interessante” ha detto Carlo Canna, uno dei protagonisti della trasformazione, in una recente intervista.
Proprio la scelta di selezionare il beneventano a numero 12 è stata la sorpresa principale del Sei Nazioni italiano, volta ad improntare un gioco mirato all’aggiramento della linea difensiva avversaria con due playmaker ad agire dalla profondità di una seconda linea d’attacco, spostando spesso il pallone da una fascia del campo all’altra.
Da un punto di vista di struttura di gioco l’Italia ha messo in campo un classico 1-3-3-1: due gruppi di 3 avanti al centro del campo con i trequarti ad organizzare, appunto, una seconda linea d’attacco più profonda. Il giocatore del pack schierato all’esterno spesso viene utilizzato per porre un ulteriore quesito ai difensori avversari.
Anche se in questa azione Callum Braley decide di attaccare in prima persona, si nota bene la struttura dell’attacco azzurro: la terza linea schierata nella zona di destra si sta rialzando dal punto d’incontro, ci sono due gruppi di 3 avanti centrali con i due playmaker sull’asse, in modo da dare almeno tre opzioni al giocatore centrale: caricare, passare all’avanti vicino, passare al trequarti dietro.Quest’ultimo avrà a sua volta una doppia possibilità di scelta: il pod degli avanti o il numero 12 pronto a innescare i compagni al largo, fra i quali c’è un’altra terza linea.
Rispetto alla prerogativa del gioco di O’Shea, tesa ad attaccare la linea e a giocare maggiormente all’altezza, Allan e Canna giocano lontani dal vantaggio, e sviluppano insieme ai compagni un gioco che si dipana, come detto, in profondità. Il primo playmaker (principalmente il mediano d’apertura) diventa così meno protagonista delle scelte di gioco, mentre acquistano maggiore rilevanza le scelte del secondo.
Si gioca generalmente seguendo il senso di gioco, ma dopo che la palla è finita su un lato e da lì viene riportata verso l’interno con una ruck non lontana dalla precedente, viene spesso esplorata la possibilità di cambiare senso e tornare a giocare dalla parte chiusa, sfruttando magari la tendenza di certe difese iperstacanoviste ad anticipare la scalata nel senso del gioco.
E’ più facile da capire con la dimostrazione video: si va su un lato con Minozzi, Zilocchi carica e a quel punto si gioca di nuovo dal lato chiuso, trovando un buon avanzamento. E’ una costante di cui questo episodio è solo un esempio
L’opzione di cambiare senso viene utilizzata anche nelle situazioni in cui c’è stato un avanzamento molto profondo. In questi casi spesso un avanti attacca all’altezza nella zona presidiata dalla prima guardia per coglierla ancora in arretramento e continuare quindi a mantenere il ritmo avanzante.
La struttura di gioco ovviamente rimane abbastanza fluida, al servizio delle necessità contingenti, e la vediamo all’opera soprattutto in quella zona di campo compresa fra le due linee dei ventidue metri. L’idea è quella che questo modo di giocare sia ideale per il tipo di difese in voga in questo periodo, molto dense e concentrate sulla rapidità di salita, ma probabilmente vuole anche impreziosire le qualità individuali di alcuni giocatori, come le terze linee e i componenti del triangolo allargato.
La struttura di gioco azzurra in azione. Zilocchi avanza, Polledri invece gioca dietro la schiena del compagno per Allan e innesca l’aggiramento della linea difensiva. Morisi, in questa azione dove due avanti sono rimasti dal lato opposto del campo in un punto d’incontro, agisce come in altre circostanze avrebbe fatto un terza linea, ponendo un ulteriore quesito alla difesa: la palla andrà all’altezza o dietro la schiena?
Zone di campo
Il piano di gioco messo in atto dall’Italia nelle 3 partite del Sei Nazioni è stato sempre lo stesso, con poche variazioni sullo spartito, com’è normale che sia per una squadra che da poco tempo sta innestando un nuovo sistema offensivo.
Nei propri 22 metri l’Italia mette in pratica exit strategies semplici e non tenta quasi niente di azzardato. Alla prima occasione si effettua un calcio di liberazione mirato ad andare direttamente fuori. Nella zona fra i 22 e la metà campo, invece, l’Italia prova moderatamente a mettere in difficoltà gli avversari: se c’è avanzamento si continua a giocare, se invece l’avanzamento non c’è o non si concretizza in poche fasi, con un limite di massima impostato a 3, si utilizza il piede.
In entrambi i casi il calcio è quasi sempre affidato al numero 10, o comunque non rientra fra le responsabilità del mediano di mischia. Nei 240 minuti analizzati, solamente due volte Callum Braley ha calciato dalla base del ruck, entrambe le volte da dentro i 22 metri e cercando la rimessa laterale. Il box kick alto per portare pressione non è fra le armi che lo staff tecnico azzurro ha deciso di utilizzare.
Piuttosto, la strategia del gioco al piede è interessante. Fuori dai 22 metri i calci di Allan assomigliano ai punt del football americano: calci dalla parabola alta e lunga, che danno il tempo ai giocatori azzurri di formare una linea difensiva ben distribuita.
Solamente nel secondo tempo della partita con la Francia c’è stato un cambio di strategia, probabilmente arrivato dallo staff tecnico: notata l’indolenza francese, per due volte gli Azzurri hanno spedito in aria un up’n’under sotto il quale portare pressione con Mattia Bellini, riguadagnando in entrambi i casi l’ovale.
Fiaccati da una difesa arrembante dei francesi, gli Azzurri sono costretti a calciare. Allan mette il pallone lunghissimo e a quel punto ai Bleus si presenta una scelta: calciare fuori concedendo possesso e territorio all’Italia; calciare in campo e concedere il contrattacco, che verosimilmente finirebbe col causare un avanzamento per l’Italia rispetto al punto del primo calcio dell’ovale; contrattaccare, e quindi assumersi dei rischi in una zona scomoda del campo. Teddy Thomas opta per la terza scelta, commette un errore e regala una mischia all’Italia, dalle cui conseguenze scaturirà la prima meta degli ospiti
Nella metà campo avversaria invece l’obiettivo è giocare, muovendo tanto il pallone da una parte all’altra del campo come abbiamo visto prima. Una tendenza al gioco arioso che viene immediatamente rintuzzata quando si entra nei 22 metri degli avversari. Qui l’Italia alza il ritmo del suo gioco, già di per sé sostenuto, e gioca con continue cariche centrali di tutti gli avanti, uscendo dalla struttura generale e provando a stringere la difesa avversaria per poi trovare la via della meta o per linee dirette, battendo la difesa vicino, o con un eventuale gioco della linea arretrata una volta creata una superiorità.
Prendersi dei rischi
Dov’è che l’Italia si rende invece più audace? In tre situazioni diverse. La prima, quella che è saltata più all’occhio di qualsiasi spettatore, è quella del contrattacco. Come abbiamo già evidenziato, l’Italia gioca (anche) per generare un alto numero di situazioni in cui può mettere in moto Jayden Hayward, Matteo Minozzi e Mattia Bellini. Lo fa con la sua strategia al piede che, quando precisa ed efficace, spinge gli avversari a restituire il pallone e offrire il fianco ai contrattacchi del triangolo allargato. Lo fa anche con i calci d’inizio, sempre spediti lunghi, verso l’angolo di destra, per costringere gli avversari a calciare, possibilmente in campo per applicare immediatamente pressione alla difesa.
La zona di campo in cui ci si trova ha un’importanza limitata in questo frangente. A meno che il pallone non sia recuperato troppo vicino alla propria linea di meta e in una situazione di svantaggio, l’Italia non rinuncia mai alla possibilità di contrattaccare e di mantenere quindi il possesso.
Lo stesso vale per le preziosissime occasioni di turnover, che l’Italia però sfrutta in maniera meno efficace rispetto alla precedente situazione. Quando gli Azzurri recuperano il pallone, il primo comandamento è immediatamente spostare il pallone. Due, tre passaggi per andare ad attaccare lo spazio, spesso sul fronte opposto rispetto a quello dove si è recuperato l’ovale.
In ogni situazione di gioco, poi, ogni volta che un giocatore è oltre la difesa è autorizzato a dare continuità al pallone attraverso un offload. Un’eventualità che accade più spesso sulle fasce laterali, dove i larghi spazi costringono i difensori ad avere maggiori problemi in copertura, concedendo quindi l’avanzamento al giocatore in attacco.
Difesa aggirata, Bellini batte McNicholl all’interno ed è oltre la difesa. A quel punto si può riciclare l’ovale, cosa che fa Minozzi e che tenterà poi di fare Morisi, ma finirà per perdere sfortunatamente il possesso
Attacco da lancio del gioco
Il comportamento della squadra da rimessa laterale o da mischia chiusa si collega a quanto stabilito dal piano di gioco. Pertanto, ad esempio, i lanci di gioco all’interno dei propri 22 metri vengono sempre giocati con una fase di alleggerimento della pressione, fatta con un’intenzione primaria di conservazione sicura del possesso prima ancora che di avanzamento, per poi calciare il pallone fuori.
Nella propria metà campo l’Italia prova a giocare, spesso andando a prendersi immediatamente il vantaggio in una zona del campo lontana dalla fonte di gioco. Si sfrutta, insomma, il fatto che gli avversari debbano tenere diversi avversari a coprire la profondità per guadagnare metri.
Nella metà campo opposta, da mischia chiusa, si predilige invece una carica nella zona centrale del campo, con Canna o Morisi, mentre da rimessa laterale diventa sistematico l’utilizzo del drive. La maul rimane però un’arma spuntata della nazionale azzurra: un po’ per la differente interpretazione del regolamento rispetto al passato, un po’ per la crescita delle difese, un po’ per demerito italiano i raggruppamenti impostati in attacco hanno sortito pochissimi effetti. Cinque drive da rimessa laterale a 5 metri dalla linea di meta avversaria hanno prodotto 0 punti, e in troppe occasioni sono finiti con la perdita del possesso.
Margini di miglioramento e necessità di evolvere
Nei 240 minuti disputati nel Sei Nazioni 2020 l’Italia ci ha fatto vedere sicuramente cose interessanti, un gioco fresco e di movimento che, se continuerà ad essere implementato, potrà portare maggiori soddisfazioni delle poche che ha effettivamente dato fin qui. Due dei tre incontri giocati si sono conclusi con l’Italia a 0 sul tabellone, e non per mancanza di opportunità nella metà campo avversaria.
Quando le cose girano abbastanza bene, come nella partita contro la Francia, l’Italia può riuscire a segnare con continuità, ma ha bisogno di eliminare la grande quantità di piccoli errori individuali e dettagli da limare per poter disputare più minuti offensivi come quelli dello Stade de France, piuttosto che come quelli frustranti della gara contro la Scozia all’Olimpico.
Concretizzare il possesso nel campo altrui sarà la priorità dello staff tecnico azzurro nel prossimo futuro, senza dimenticare la necessità di continuare ad evolvere il piano e la struttura di gioco. Le squadre affrontate finora non sapevano bene a quali minacce sarebbero andate incontro, ma in futuro uno spartito tutto sommato piuttosto prevedibile come quello interpretato dagli Azzurri potrebbe diventare troppo semplice da leggere per difese avversarie più preparate.
Per ovviare a questo problema serve soprattutto una crescita e una maggiore abitudine degli interpreti a rendere il gioco davvero opzionale, a crescere nella capacità di fare scelte (il famoso decision making, dove l’Italia è stata finora tutt’altro che perfetta) ma anche di essere possibili destinatari di quella scelta.
Saranno interessanti anche le scelte future degli interpreti, in particolar modo nei ruoli chiave dei due playmaker. In questo momento Franco Smith ha scelto di puntare sostanzialmente sugli unici due profili di questo tipo che ha in rosa. Sceglierà di cambiare qualcosa quando il rugby internazionale tornerà in campo? Carlo Canna sarà selezionato a primo centro con continuità alle Zebre, nonostante la squadra di Bradley giochi un rugby piuttosto diverso da quello dell’Italia del 2020?
Antonio Rizzi, Michelangelo Biondelli e Paolo Garbisi potranno diventare fattori in quest’equazione? E quanto presto?
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