Cosa ci fa l’Italia (ancora) nel Sei Nazioni?

Dopo l’editoriale del Times che auspica l’uscita dell’Italia dal Torneo abbiamo provato a fare un’analisi sul perché sia una cosa senza senso per tutti.

italia nel sei nazioni

Galles-Italia, Sei Nazioni 2020. Una panoramica del Principality Stadium – ph. S. Pessina

L’opinione di Stuart Barnes nel suo editoriale sul Times di qualche giorno fa – secondo cui “è ora di escludere l’Italia dal Sei Nazioni a beneficio della reputazione del torneo e per il bene dell’Italia” – ha avuto grande enfasi sulla stampa italiana, sia quella che segue abitualmente il rugby, crogiolandosi talvolta in atteggiamenti masochistici, sia su quella generalista che solitamente se ne occupa marginalmente.

Nei giorni successivi ci saremmo quindi aspettati di leggere qualche analisi o un approfondimento visto che l’argomento, per quanto non sia certo una novità, sembra avere una certa rilevanza se il parere di un giornalista ha scatenato un tale cancan. E allora, dopo le prime considerazioni a caldo, proviamo noi a fare qualche ragionamento sulla vicenda. E lo facciamo prendendo per buona l’affermazione di Barnes di “escludere l’Italia dal Sei Nazioni” e analizzando gli ipotetici scenari che si potrebbero generare.

Si torna al Cinque Nazioni

L’Italia è esclusa dal Sei Nazioni, si torna al buon vecchio Cinque Nazioni e la “reputazione del Torneo è salva”, con buona pace di Stuart Barnes.

Come conseguenza non si disputano più quindici partite ma dieci e in ognuno dei cinque weekend si giocano solo due incontri con una squadra che, a turno, riposa. Ogni due edizioni, ognuna delle 5 Federazioni ha un ammanco di bilancio per una cifra che equivale ai ricavi derivanti dai 50.000 biglietti non venduti (Aviva Stadium) ai circa 70.000 (Twickenham) per la partita casalinga con gli Azzurri che non si gioca più. Oltre naturalmente al mancato incasso derivante da bar e merchandising degli shop degli stadi.

I ricavi dei contratti con gli sponsor e cartellonistica a bordo campo di ogni Union segnano circa un meno 10%, sui 10/11 test annui infatti, se ne gioca uno in meno. Gli introiti di sponsor e diritti tv del Torneo valgono un 20% meno, mancano infatti un quinto delle partite, del pubblico allo stadio e soprattutto degli spettatori in tv (giusto per rendersi conto di cosa stiamo parlando, nel 2015, Italia-Galles ha fatto registrare un picco di 4.1 milioni di ascoltatori su BBC). Altro problema non trascurabile: nel weekend in cui la nazionale di casa riposa, quale formidabile traino viene a mancare agli ascolti per il broadcaster di quel paese?

Ci sono poi altri introiti indiretti, ma che un peso “politico” ce l’hanno per le 5 federazioni. Parliamo di qualche migliaio di italiani (e propri tifosi non residenti nella città dove si disputa il match) che ogni due anni non confluiscono più a Londra, Parigi, Cardiff, Edimburgo e Dublino per un fine settimana ovale, occupando alberghi, ristoranti, pub, locali e negozi della città in questione.

Ovvio che questa, del passo indietro al Cinque Nazioni, sia la più improbabile e assurda delle ipotesi e che nessuno la prenda nemmeno in considerazione ma serve a far si che anche l’appassionato meno addentro a vicende extra campo si faccia almeno una piccola idea di quanto possa valere l’Italia per il Sei Nazioni. Perché è verissimo che il nostro ingresso è anche merito di Grenoble e degli eccezionali risultati ottenuti da quel manipolo di eroi azzurri, ma è altrettanto vero che nel contesto di un rugby che si era appena affacciato al professionismo (1996), al Torneo serviva come il pane allargare il proprio business. E quale miglior mercato di quello ampio e ricco rappresentato dall’Italia?

Perché se è altrettanto verissimo che non si vince dal 2015, che non si può e non si deve dormire sonni tranquilli e serve fare di più e meglio per colmare il gap, bisogna anche rendersi conto che, come sempre nella vita, “gli affari si fanno in due”. Rendendosi conto di cosa portiamo al Torneo senza fermarsi sempre solo a guardare ciò ne riceviamo.

A proposito di ciò ci sembra quanto mai fondamentale ribadire ancora una volta che senza il Sei Nazioni (come si augura qualche appassionato) il nostro sport non farebbe solo un passo indietro ma quel  passo indietro che lo farebbe precipitare in un burrone da cui non uscirebbe più. E per essere ancor più chiari non parliamo della nazionale, delle franchigie e del Top12 ma anche e soprattutto dei moltissimi club, quelli che giocano nei campionati minori, partecipano ai tornei giovanili, formano i ragazzi, e tesserano i bambini e le bambine che si avvicinano al rugby.

Si passa alla formula della promozione/retrocessione con uno spareggio annuale

La squadra che, alla fine di ogni edizione è ultima in classifica gioca un test match di spareggio (a luglio) con la vincitrice del Rugby Europe Championship di quell’anno. La vincente gioca il Sei Nazioni della stagione successiva, la perdente il Championship. Dando per assodato, sulla base di quali certezze non si sa, che questo ascensore coinvolga sempre e solo gli Azzurri, il giorno in cui dovesse malauguratamente capitare, giusto per fare un esempio, al XV della rosa (in fondo chi avrebbe mai pensato di trovare Eddie Jones ed i suoi ragazzi in quinta posizione al termine dell’edizione 2018 del torneo?) la RFU, come dichiarato dal CEO Bill Sweeney, rischierebbe la bancarotta con conseguenze catastrofiche per la sopravvivenza del Torneo e dell’intero pianeta rugby (essendo quello inglese il primo mercato in assoluto).

Ma quali sono le conseguenze dell’effetto promozione/retrocessione sul Torneo? E quali sulle federazioni coinvolte? La vendita dei diritti tv, grossa fetta della torta Sei Nazioni, si fa piuttosto complicata in quanto quale broadcaster è disposto a fare un contratto pluriennale rischiando che, per una o più stagioni, la nazionale del proprio paese non partecipi al Torneo? L’alternativa diventa la vendita anno su anno con possibili fluttuazioni degli incassi per il board e delle conseguenti ripartizioni che vanno alle singole federazioni. Perché una tv georgiana o rumena non è detto che possa offrire quanto una italiana o scozzese. Non solo, l’asta annuale è aperta ai diversi player di ogni nazione, con il Torneo che potrebbe così essere trasmesso una stagione su un canale la successiva su un altro, quest’anno free il prossimo, magari, in pay-tv. Per la frustrazione degli appassionati costretti a inseguire le partite da un player all’altro. Con i broadcaster che allestiscono e/o smontano squadre di commentatori e opinionisti in base ai risultati sportivi della nazionale o al rinnovo o meno dei diritti.

Sul fronte sponsor del Torneo vale più o meno lo stesso refrain: quale azienda firmerebbe un contratto pluriennale con Six Nations Ltd sapendo che quest’anno si rivolge a un mercato che è (potenzialmente) di 60 milioni di italiani, con un certo reddito, mentre il prossimo magari a quello rumeno fatto di meno di 20 milioni (prendere come esempio la Georgia con i suoi 4 milioni sarebbe stato troppo facile). Anche le federazioni devono cambiare il loro approccio con gli sponsor: contratti che prevedano un’opzione base (nel caso giochino il Rugby Europe Championship) e un cospicuo upgrade (nel caso disputino il Sei Nazioni).

Altro aspetto: il calendario del Sei Nazioni fino ad oggi stabilito su base biennale, per permettere a federazioni e appassionati una miglior programmazione, diventa definitivo a luglio, la vendita di biglietti e abbonamenti slitta di almeno un mesetto. Con l’eventuale “big” che retrocede che deve verosimilmente organizzare le partite in stadi (e città) più piccoli. O pensiamo che un’eventuale Francia-Spagna vada in scena allo Stade de France?

Alla luce di tutto ciò la vera domanda: se è evidente che dal punto di vista economico e dell’appeal per sponsor, broadcaster e pubblico il Sei Nazioni avrebbe solo da perderci, siamo sicuri che Romania, Georgia o Germania siano in grado di offrire, a breve o a lungo termine, un tasso tecnico superiore a quello degli Azzurri? Anche perché il rischio delle partecipazioni a singhiozzo non garantirebbe a queste nazioni budget certi e continuativi come quelli che ha avuto l’Italia in 20 anni (senza riuscire a colmare il gap) quindi come potrebbero farlo loro con meno risorse e meno certezze?

Di conseguenza si rischierebbe di arrivare alla paradossale conclusione che, per non avere sempre la solita “sesta nazione” che vale 5 (come l’Italia attuale), ci si trovi poi ad averne due, magari tre, che valgono 4 o forse meno. E di ritrovarci tra qualche anno con qualche illustre opinionista che nel suo editoriale chiederà il ritorno al buon vecchio Cinque Nazioni, riportando il rugby europeo al punto di partenza (anche di questo articolo).

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