Mattia Bellini è pronto alla ripartenza, più maturo e forte che mai

Abbiamo parlato con l’ala azzurra, rigenerata dalla pausa fozata

Mattia Bellini (ph. Sebastiano Pessina)

Dopo un lungo stop, le Zebre Rugby – reduci, ieri, dai test sierologici – torneranno ad allenarsi individualmente, alla Cittadella del Rugby di Parma, a partire dalla giornata odierna.

Presente, in gruppo, anche Mattia Bellini, ala multicolor e della Nazionale italiana, con cui stava vivendo, in avvio di Sei Nazioni 2020, uno dei periodi più brillanti della sua carriera internazionale. La pausa forzata dal rugby giocato, proprio in un momento così propizio, avrebbe potuto lasciare un segno dai connotati negativi sul ragazzo patavino, il quale, invece, dopo un attimo di sbandamento iniziale, ha saputo mettere le cose nella giusta prospettiva, traendo da questi mesi diverse cose positive. Lo abbiamo raggiunto, per parlarne assieme a lui.

Mattia, come hai vissuto questi mesi così particolari?

Quando sono arrivati i primi rinvii, tra Sei Nazioni e Zebre, non nego di essermi dispiaciuto. Un blocco simile è oggettivamente anomalo e difficile da gestire. Poi, però, dopo qualche giorno, ho metabolizzato come fossimo al cospetto di una questione globale. Mi sono sentito, all’improvviso, come una piccola gocciolina d’acqua in un oceano.

Anche se mi manca il campo ed il poter giocare normalmente a rugby, questi due mesi, con il senno di poi, mi hanno fatto molto bene, sia come individuo che, di riflesso, anche come atleta. Ho capito cosa ha realmente importanza per me stesso, oggi ed anche in ottica futura. Per la prima volta ho avuto a disposizione – anche forzatamente, va detto – tanto tempo per conoscermi meglio, per guardarmi dentro e riflettere su cosa veramente interessa a Mattia in quanto tale, e non a Mattia influenzato dalla vicinanza/presenza di altre persone, come succede regolarmente in un gruppo, non fa differenza se in una squadra, in un ufficio o in una classe di scuola. Ho scoperto alcuni lati di me che non conoscevo, ne ho ritrovati altri che pensavo di aver perduto. Ed in generale, soprattutto, ho trovato un po’ di equilibrio e serenità. Con il senno di poi, è come se questo periodo abbia idealmente rappresentato l’appendice di un anno che mi ha cambiato la vita, tra convivenza ed iscrizione all’Università. Non vedo l’ora di portare in campo, sia in allenamento che in partita queste vibrazioni positive.

Utili per provare a cambiare marcia in casa Zebre? Che stagione è stata fino a febbraio?

Non voglio girarci intorno. Negli ultimi 3 anni siamo cresciuti, sotto l’egida di Mike e anche grazie al lavoro della società, da tempo forniamo ottime prestazioni, ma dobbiamo assolutamente fare un salto di qualità, collettivamente, nella capacità di portare a casa le partite sul filo del rasoio, di performare al meglio nei momenti apicali dell’incontro.

Anche se forse potrebbe sembrare un discorso un filo semplicistico, la nostra ambizione deve essere quella di portare a termine stagioni come quella di Treviso lo scorso anno. Sappiamo di avere le possibilità per farlo, per raggiungere determinati traguardi. Quest’anno, ad esempio, ci eravamo posti l’obiettivo di passare ai quarti di Challenge Cup, un qualcosa di fattibile, anche con il senno del poi. Negli attimi clou delle due partite interne con Stade Francais (persa 13-14) e Bristol (pareggiata 7-7), tuttavia, seppur consci della qualità di queste squadre che si son presentate a Parma con in campo gente del Calibro di Luatua, Hughes, Sanchez o Fickou, e con l’attenuante di un campo non in grandi condizioni, ci è sempre mancato quel quid di testa che ci potesse permettere di archiviare la vittoria.

Però, mi sto rendendo conto sulla mia, sulla nostra pelle che quando entri nel loop mortifero della sconfitta, mentalmente non è facile uscirne. ‘Vincere aiuta a vincere’ non è una frase buttata lì tanto per. Bensì, trovo sia una dei detti più realistici che abbia mai sentito. Treviso, lo scorso anno, è riuscito a creare quello che potrei definire circolo virtuoso della vittoria, portando a casa tutte, ma proprio tutte, le partite ’50/50′. Noi, come Zebre, negli ultimi campionati, quel genere di sfida l’abbiamo sempre pera. Mi vengono in mente numerose gare di questo tipo andando a ritroso anche solo di un paio d’annate: contro Cheetahs, Connacht, Leinster e la lista è lunga.

Sono problemi simili a quelli che riscontri in Nazionale? 

In parte sì, ma c’è una differenza enorme tra Zebre e Nazionale. Con il club hai molto tempo per lavorare su diversi aspetti. L’esperienza in azzurro è un qualcosa che si consuma molto più rapidamente, con meno margini di manovra.

Quest’anno abbiamo avuto pochissimo tempo per sviluppare le nuove idee di Franco (Smith, ndr). Quando cambi totalmente piano di gioco, non è per niente agevole preparare partite al massimo livello internazionale. Lo si è visto anche per il Galles, che è una squadra collaudata, da anni al vertice, e con un nuovo coach che conosceva gran parte dei giocatori, eppure hanno faticato rispetto alle attese.

Detto ciò, e questo, per certi versi, è un punto di contatto con le Zebre, al netto della nostra preparazione alla partita, della qualità della performance e del momento più o meno positivo della stagione, troppo spesso, in azzurro, ci facciamo condizionare dal risultato. Quando siamo sotto, andiamo immediatamente nel panico. Se capita di piombare oltre il doppio break di distanza, il morale finisce sotto i tacchetti, ed è dura, durissima riprendere in mano il controllo delle emozioni del match.

A volte si percepisce in modo piuttosto chiaro. Come pensi sia risolvibile tale situazione?

Non è facile trovare una chiave di lettura vincente a questo aspetto, basti pensare anche a quante persone nel corso degli anni hanno lavorato a questo progetto, faticando ad invertire la rotta. Una cosa, però, nonostante le problematiche, ci tengo a sottolinearla con la massima forza. Il nostro gruppo, e non parlo solo dei giocatori, ma di tutte le persone con cui viviamo a stretto contatto nelle giornate azzurre, ha un’ambizione enorme. Facciamo sempre tutto quello che è nelle nostre possibilità per provare a vincere ogni singola partita che affrontiamo. Non siamo mai scesi in campo rassegnati prima del calcio d’inizio, o senza la giusta attitudine, altrimenti non faremmo questo sport. Certe persone, però, evidentemente non lo hanno capito, o forse non vogliono capirlo. Alle volte mi vengono poste domande e riportate considerazioni, da gente che di rugby ne capisce, che mi fanno male. Ci sono problemi? Si, certamente, e ci rendiamo conto siano grandi. Ma servirebbe, nell’atto di valutare una partita o una selezione, una maggior capacità di contestualizzare un determinato evento o un determinato percorso.

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Fa male il confronto dicotomico, a volte eccessivamente severo e piuttosto forzato visto i diversi contesti, tra voi (“perdono sempre”) e l’accoppiata U20 e femminile, negli ultimi anni in grado di archiviare ottimi risultati? 

No, questo confronto ci mette di fronte ad una realtà, amara per quanto ci riguarda. Possiamo solo prenderne atto e sfruttare la cosa come un pungolo, un’extra motivazione importante. Vedere l’Under 20 e la femminile che vincono mi fa estremamente piacere. I giovincelli, in termini di squadra, hanno fatto un grande salto in avanti, anche rispetto alla selezione dei miei tempi. Peraltro, quando li vediamo giocare al venerdì, la sera prima delle nostre sfide al 6N, mi gasano. Hanno anche quel pizzico di sana presunzione che non fa mai male. Le ragazze le seguo sempre con affetto, anche perché molte vengono dal Valsugana Padova, la cui squadra femminile è un’eccellenza sportiva della mia città.

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Con una hai condiviso anche alcune esperienze sportive in giovane età, al Petrarca..

Beatrice (Rigoni, ndr) è stata fortunata ad avere alcuni compagni forti forti (sorride, ndr) come me, Paolino Ragazzi, tallonatore di grande talento che purtroppo ha dovuto fermarsi per un infortunio al ginocchio, e tanti altri atleti di qualità. Scherzi a parte, con noi – che eravamo oggettivamente un gruppo di ottima qualità già all’epoca – Bea ha avuto numeri pazzeschi. Nonostante avesse un anno in meno, era sempre titolare e faceva la differenza. Non mi ha sorpreso minimamente il fatto di vederla in nazionale a 18 anni.

Ripensandoci nel corso degli anni, mi sono reso conto di essere stato fortunato a crescere in quel Petrarca. Abbiamo avuto grandi allenatori di campo, ma allo stesso tempo anche straordinari educatori. Ad esempio, furono in grado di non farci mai percepire la presenza di una ragazza come un fatto strano, anzi. Era talmente integrata nel nostro ambiente che fu difficile abituarsi al vederla in maglia Valsugana, club con cui a livello giovanile c’era una rivalità pazzesca.

A proposito di stranezze, questo periodo così diverso dalla routine abituale ha cambiato in qualche modo anche i tuoi piani professionali per il futuro a lungo termine? Hai mai pensato ad un’esperienza all’estero?

Sicuramente mi ha lasciato in eredità nuovi stimoli per la seconda metà della carriera. Spero di giocare almeno altri 6/7 anni, ma la verità è che non puoi mai prevedere quanto duri. Questo sport è sempre più violento ed ho già subito diversi infortuni.

Ambendo sempre al meglio, da rugbista nutro una grande curiosità rispetto ad un’eventuale esperienza all’estero, ma sono consapevole di aver ancora bisogno ancora di tempo per fare quel salto. Avendo trovato realmente tranquillità e continuità nella mia carriera solo da poco, vorrei concentrarmi esclusivamente sui prossimi due anni a Parma (Bellini ha rinnovato sino al 2022, ndr). Nel futuro, tuttavia, tengo in forte considerazione l’ipotesi di un’avventura fuori confine, possibilmente al più alto livello possibile. Ma, nel caso, pure in una seconda serie, a fine carriera, non dovesse concretizzarsi niente in precedenza. Anche solo come esperienza di vita, a contatto con un popolo ed una cultura diversi rispetto a quelli a cui sono abituato.

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