Diverse sfumature di (Craig) Green

L’all Black della Marca

Craig Green (ph. Fiamme Oro Rugby)

Nelle scorse settimane, dopo un biennio a San Donà, Craig Green ha ufficializzato il proprio passaggio, in qualità di capo allenatore, alle Fiamme Oro, squadra della Polizia con sede a Roma. Una scelta che porterà nuovamente la leggenda neozelandese lontano da Treviso, lontano da casa. Avete letto bene, da casa, perché la Marca, per uno dei trequarti più forti nella storia del gioco – campione del mondo 1987 con i Tuttineri (con cui vanta 29 caps ed 11 marcature pesanti), nonché miglior marcatore del torneo, nella prima edizione della Rugby World Cup -, dopo un incredibile viaggio (iniziato nella natia Christchurch nel 1961) è divenuto il luogo del cuore, dove conservare e rivivere, idealmente, un’infinità di esperienze vissute all’interno di Ovalia.

“Se ripenso alla mia carriera, affiorano alla mente, istantaneamente, una serie incredibili di ricordi. Sorprenderò un poco tutti, probabilmente, ma uno di quelli a cui più sono legato è l’esperienza con la selezione 7s del mio paese. Attorno alla metà degli anni ’80, giravamo il Mondo, vincendo tornei su tornei, con una squadra pazzesca (Buck Shelford, Wayne Smith, Zinzane Brooke, assieme a tanti altri All Blacks poi campioni iridati) per affrontare tornei di grande livello. Si andava a Sydney, Hong Kong, che era già il punto di riferimento, e Dubai. Era come se stesse nascendo sotto i nostri occhi il circuito di World Series, senza che ce ne fossimo realmente accorti.

Un processo che, per certi versi, fu arrestato – almeno momentaneamente – dall’irruzione sul palcoscenico ovale della Coppa del Mondo 1987. Una competizione, però, che all’epoca era molto lontana dall’idea contemporanea di Mondiale, sotto qualsiasi punto di vista la si volesse vedere.

“All’inizio c’erano molti dubbi anche sull’allestimento di una Coppa del Mondo. E sicuramente, essendo un concetto totalmente nuovo nel nostro Mondo, la percezione del torneo era estremamente diversa rispetto a quella attuale. Non c’era la cassa di risonanza mediatica garantita a tale rassegna nelle edizioni a venire. Ad ogni modo, in Nuova Zelanda, a differenza delle nazionali dell’Emisfero Nord, eravamo preparati per affrontare un torneo con tante partite a stretto giro di posta. All’epoca, prendendomi come esempio, nei momenti più caldi della stagione, si arrivava a giocare, dalle nostre parti, anche 10 partite in 14 giorni, a diverso livello. Il sabato con gli All Blacks in un Test Match, la domenica con Canterbury, la provincia, il mercoledì con il club e così via, per cinque mesi l’anno. Un ritmo incredibile, ma non ci si poteva tirare indietro: tutti si aspettavano che tu giocassi, facendolo, peraltro, sempre al meglio delle tue possibilità, altrimenti storcevano il naso”

L’importanza della preparazione atletica

“Questo aspetto, corroborato da una preparazione fisica eccellente, ci permise di dominare il Mondiale. Sotto il profilo atletico, infatti, va sottolineato come fossimo nettamente davanti a tutto il resto del globo. A Canterbury, con la provincia, per esempio, avevamo un programma dettagliato, in tal senso, da diversi anni. Per preparare la competizione iridata, poi, scese addirittura in Nuova Zelanda Jim Blair, un preparatore atletico proveniente dal mondo del calcio inglese, che, di fatto, ci permise di salire ulteriormente di colpi. Prima, al massimo, avevamo qualcuno che ci indicava come utilizzare gli strumenti in palestra, per fare i muscoli, mentre Jim lavorò sulla nostra forza esplosiva individuale, applicata alle esigenze del rugby. Il suo impatto fu estremamente potente, nonché una delle chiavi che ci permise di dominare, senza esitazioni, dalla prima all’ultima partita del torneo, che archiviammo con un netto 29-9 in finale sulla Francia. Anche se forse, devo dire che, a causa pure dell’assenza del Sudafrica, non abbiamo metabolizzato in fretta il titolo ‘Campioni del Mondo’. Fu una definizione che impiegò qualche tempo ad entrare nelle nostre teste”.

Haka, alle origini del mito

Ciò che uscì vincitore da quel torneo, invece, fu la Haka, che iniziò da lì la propria rincorsa alla celebrità attuale.

“All’epoca, fino al mondiale 1987, la Haka si faceva solo all’estero. Era, fino a quel momento, decisamente meno importante di quanto non lo sia oggi. A tal punto che non era proprio conosciutissima, in ogni suo movimento da tutti gli atleti in campo, soprattutto dai nuovi. A volte, se ci si rivede in vecchi video della danza, c’è da sorridere. Non si era nemmeno coordinati. L’unica cosa fondamentale era il saltino finale, che doveva essere puntuale e fatto tutti assieme, perché in quel momento veniva scattata la foto (sorride, ndr)”.

La spinta decisiva di Buck Shelford

“Solo durante il Mondiale, grazie alla decisione ed alla forza di volontà di Buck Shelford, orgoglioso Maori e straordinario giocatore, si decise di eseguirla sempre, anche tra le mura amiche. Fu lì che iniziò ad assumere un’importanza trasversale molto più grande rispetto a quanto non fosse mai accaduto. Oggi è curata nei minimi dettagli ed è diventata anche un mezzo commerciale piuttosto potente. Ma non è affatto solo immagine. Si tratta di rispetto nei confronti della popolazione maori e di un qualcosa che non potresti mai togliere ai neozelandesi, e non solo quelli Maori. Ormai è parte della nostra cultura ovale: una partita non potrebbe mai, e sottolineo mai, iniziare senza di essa”.

Orgoglio tuttonero

Motivo di vanto, e d’orgoglio, la Haka. Tratto distintivo, così come, per un giocatore ovale del paese oceanico, l’aver disputato almeno una gara con indosso la maglia tuttanera. “Avere indossato quella maglia è stato un orgoglio indicibile. Ancora oggi ci penso spesso, quando rivedo filmati e partite, a quanto sia stato fortunato ad aver giocato con gli All Blacks, vincendo pure il Mondiale in casa. Guardando indietro posso dire di essere stato un giocatore della squadra più forte del Mondo. Purtroppo, però, orgoglio e gloria non provvedevano ad uno stipendio. Per mantenermi dovevo lavorare come muratore, ero sui cantieri anche due giorni dopo la vittoria della finale iridata. Sembra incredibile con il senno di oggi, vero? Eppure era la normalità. Venivo pagato solamente in presenza, e causa impegni ovali prolungati, diventava sempre più difficile raccogliere i soldi necessari per vivere. Così, quando nel 1986 non mi permisero di saltare una sfida amichevole dei tuttineri perché avevo bisogno di una settimana piena sul cantiere, mi resi conto che, alla fin fine, per l’organizzazione federale ero solo uno dei tanti, iniziai a pensare ad un futuro altrove”.

Un futuro dove il rugby potesse rappresentare anche un modo per guadagnarsi da vivere, nonostante il professionismo, ufficialmente, non fosse ammesso ad Ovalia.

Lo sbarco in Italia

“Nel 1987 mi si presentò l’occasione di venire in Italia, a Treviso. John Kirwan, che era già stato un paio di anni prima nella Marca, avrebbe dovuto salire in Europa, per giocare la stagione ’87/’88 con il Benetton, ma all’ultimo dovette rinunciare per qualche problema di salute del padre, cedendomi il suo posto”.

Come se fosse la prima volta

“Ero già venuto in Europa per i tour degli All Blacks nel Regno Unito – in cui spesso ci presentavamo con tante riserve, proprio per i problemi legati al binomio sport-lavoro -, nel corso degli anni precedenti, ma Treviso fu tutta un’altra cosa. Sono rimasto rapito dal posto, che non a caso è anche diventato casa mia. Per i primi due anni, di fatto, nonostante il professionismo non esistesse ancora feci esclusivamente il giocatore di rugby. Dei miei primi anni ricordo alcune cose pazzesche: il caldo assurdo in estate, gli orario folli – rispetto alla Nuova Zelanda, quando dormivo prestissimo – a cui si usciva a cena, tipo alle 22.30, i bellissimi viaggi in bus con la squadra per le strade d’Italia, e lo straordinario trattamento che la famiglia Benetton riservava a tutti i componenti del team. Riuscivano sempre a metterci a nostro agio, a farci stare bene assieme, che si fosse nelle sfarzose cene di Natale, nelle grandi feste organizzate in Ghirada o nella canonica routine giornaliera. In più, alle volte, ci premiavano portandoci in giornata, con il loro jet privato, a vedere il Cinque Nazioni a Parigi, o in un resort alpino a sciare (sorride, ndr)”.

Non solo extra campo, però. Le avventure trevigiane di Green sono da ricordare anche dentro il rettangolo verde. “Sul campo, dopo aver perso la finale con Rovigo il primo anno, ci rifacemmo con gli interessi nella stagione ’88/’89. Sotto la guida del francese Andre Buonomo, abbiamo fatto un’ottima stagione regolare, giocando un rugby estremamente interessante, con l’intenzione sempre di muovere la palle, chiudendo il cerchio con de grandi playoff. Prima con due semifinali spettacolari, contro L’Aquila, che poteva contare su gente del calibro di Mike Brewer e Frano Botica. Poi, in finale contro i Bersaglieri giocammo in maniera molto più solida, e di fronte a quasi 20mila persone, in quel di Bologna, vincemmo 20-9, scatenando il tripudio del nostro popolo. La festa che si generò alla Ghirada mi resterà sempre ben impressa nella mente. Un quantitativo di gente simile, tutta unita per festeggiare un titolo, non credo di averla mai vista in vita mia”.

Lavoro alternativo

“Dal mio terzo anno, cambiarono le regole sull’utilizzo degli stranieri – che divennero più restrittive – e ci fu un’ondata di argentini ‘passaportati’ che sbarcarono in Italia. Decisi in quel momento di tornare ad affiancare al rugby un lavoro secondario, e grazie all’indicazione di un dirigente del club, iniziai a lavorare in un allevamento di trote al mattino. Fu un poco come tornare ai tempi della Nuova Zelanda, anche se in Italia, comunque, l’attività sportiva di alto livello ti portava in dote introiti che, nel mio Paese, continuavano ad essere sconosciuti”.

“Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, il livello del massimo torneo italiano si attestava a metà strada tra il livello provinciale e quello dei club in Nuova Zelanda. Lo standard dei compagni di squadra era variegato, ti trovavi a giocare con All Blacks, Wallabies e fuoriclasse italiani pseudo-pro, e contemporaneamente con ragazzi che lavoravano magari 8/10 ore al giorno e la sera venivano al campo per fare la cosa che amavano di più. Situazioni decisamente diverse rispetto al livello omogeneo dei campionati attuali. Una cosa che non mi sono mai spiegato dell’Italia, e dell’Europa in generale, è la misteriosa differenza prestazionale di una squadra, a seconda che questa giochi in casa o fuori. Non me ne capaciterò mai”.

Nemmeno a Casale, in A2, dove sbarca nel 1991

“Dopo l’esperienza in biancoverde, trasferirmi a Casale è stato come un ritorno al club piccolo della Nuova Zelanda. Quasi tutta la squadra viveva là vicino, in molti sono cresciuti nelle giovanili del team. C’era uno spirito di appartenenza fantastico. I giocatori facevano da mangiare il venerdì in club house, ed ognuno metteva 5mila lire per allestire la cena. Fu un’esperienza molto bella, diversa dal Benetton Rugby, ma altrettanto memorabile. Il primo anno vincemmo la A2, mentre nel ’92/’93 sfiorammo i playoff in massima serie”. Anche perché il team era comunque ricco di talento.

“Avevamo in squadra un paio di argentini molto forti, Zinzane Brooke, Stefano Bettarello. Un gruppo variegato, ma che stava veramente bene insieme. Purtroppo l’ultimo anno è andato tutto storto e siamo retrocessi, ma sono cose che capitano nel mondo dello sport, anche se mi resta l’amaro in bocca”.

Vita da allenatore e forza giapponese

Una chiusura della carriera sul campo deludente, prima di rilanciarsi, alla grande in panchina. Dopo un lustro in Nuova Zelanda, in chiusura di millennio, l’Italia ed in particolare Treviso tornano ad essere una stella luminosa nel suo cielo ovale. Da coach nella Marca, Green scrive la storia, vincendo ben 4 scudetti (tra 2003 e 2007), a cui aggiunge anche una Coppa (2005) ed una Supercoppa italiana (2006). Lascia il segno, però, non solo nel belpaese, ma anche nel Sol Levante, che a sua volta ha lasciato un segno su di lui, e potrebbe lasciarlo, in futuro, sul rugby mondiale.

“Il rugby giapponese, anche per uno stile di gioco decisamente gradevole, è sempre stato molto seguito in Giappone, e dirò di più, persino in Nuova Zelanda riscuoteva un minimo successo. Già negli anni ’90, quando allenai la Kanto Gakuin University, mi resi conto di quanto fosse popolare, nelle scuole, il nostro sport. In finale c’erano 80mila persone, incredibile per un torneo under 23. Il campionato che c’è ora, non è solo lustrini e paillete dei grandi stranieri che arrivano ogni anno, ma è basato anche e soprattutto sui giovani che escono formati dalle scuole. Quando sono tornato nel 2013 – con Dynaboars -, ho rivisto tanti giocatori universitari dell’epoca, non solo in campo, ma anche come allenatori, preparatori atletici, dirigenti. Mi sento quindi di dire che il Giappone ha una base solida. Poi, come ben sappiamo, i club pro hanno alle loro spalle grandi aziende come Panasonic, Mitsubishi o Honda. Multinazionali enormi. Non sono un fuoco di paglia”. Insomma, un’Italia ovale anni ’80/’90 3.0, quella che ha fatto innamorare Craig Green, l’All Black della Marca.

Matteo Viscardi

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