Giordana Duca e il rugby, questione di famiglia (e passione)

Una lunga intervista con la seconda linea azzurra, tra percorso ovale, aneddoti ed obiettivi futuri

Giordana Duca (ph. Ettore Griffoni)

Giordana Duca, 28enne avanti romana di Italdonne e Valsugana Padova, è assurta, nell’ultimo biennio, al ruolo di elemento di primaria importanza nelle gerarchie in seconda linea di Andrea Di Giandomenico, ed ormai da un anno gioca a Padova, nelle Valsugirls, squadra con cui era in vetta al campionato italiano, prima dello stop. L’abbiamo raggiunta per una lunga intervista, tra percorso ovale, aneddoti, ed obiettivi futuri.

Giordana, avete ripreso l’attività? Sarai al Valsugana anche l’anno prossimo?

Abbiamo ripreso ormai da un mese, perlomeno con la parte legata al fitness. L’Anno prossimo giocherò ancora tra le file del Valsugana. Anche perché l’idea, quando ho deciso di trasferirmi a Padova, era quella di restare con il team almeno fino al mondiale. E magari anche oltre.

Un’idea che hai consolidato in questi mesi?

Sì. Ho trovato lavoro, come baby sitter. Mi occupo di due gemellini molto piccoli. Vado a prenderli all’alba per portarli al nido, poi li ho in consegna dalle 3 del pomeriggio fino alle 7 di sera quando tornano i genitori. Nel corso della giornata, così, riesco ad incastrare tutti gli aspetti della mia vita: il lavoro la mattina presto e nel pomeriggio, la palestra ed altri dettagli fisici prima di pranzo e poi gli allenamenti con la squadra la sera. Casca a pennello.

E poi mi trovo bene sia in città che con la squadra. Quindi potrebbe diventare una cosa anche più a lungo termine. Roma mi manca, sicuramente (sorride, ndr). Però, sto apprezzando molto Padova. Qua c’è tantissimo verde, ed anche la possibilità di muoversi molto in bicicletta. E poi è una realtà molto giovanile. Con le ragazze ci si trova anche fuori dal campo. Usciamo assieme a cena, siamo in sintonia.

Mentre sul campo?

Sono soddisfatta, ma non ne dubitavo troppo. Anche perché la scelta era ben mirata: sapevo quello a cui andavo incontro ed ero certa di come la squadra fosse tra le migliori in Italia, con una struttura di livello ed uno staff preparato. Tra l’altro, essendo il coach una terza linea, ci tiene moltissimo al fondamentale della touche, che è quello principale per il mio ruolo. C’è sempre qualche novità, settimana dopo settimana, sulle rimesse laterali. E, poi, si mette lui in prima persona a fare i carretti. Ci carica tantissimo con la sua energia ed il suo entusiasmo, e noi ci divertiamo parecchio. Insomma, gli stimoli non mancano.

Sei arrivata in Veneto sulla scia di un’annata di qualità alla Capitolina…

L’ultimo anno all’Unione Rugby Capitolina penso sia stato uno dei migliori della carriera. Avevamo nello staff anche un’icona del rugby femminile come Michela Tondinelli, ci siamo trovate veramente molto bene. C’era un bel gruppo – che è rimasto più o meno invariato -, con tante ragazze di qualità, quasi tutte molto giovani e destinate a crescere. Avevamo imparato a giocare sui nostri punti forti, e nonostante sapevamo di non essere al livello delle top 3, in semifinale ci siamo divertite contro Villorba.

La Capitolina, poi, è una società solida. a livello di staff e strutture si ha a disposizione tutto quello che serve per poter pensare di giocare a rugby al meglio. Sono stata abbastanza fortunata, perché i team in cui ho giocato hanno una considerazione molto simile tra seniores maschile e femminile. Purtroppo, ovviamente, senza stipendio per noi ragazze (sorride, ndr), ma tutto il resto è sempre stato di assoluto rilievo.

Conurbazione capitolina, dove peraltro hai iniziato a giocare….

Dopo nove anni di nuoto, sport che mi piaceva molto e sicuramente mi ha aiutato nello sviluppo della muscolatura, ho avuto un attimo di tentennamento. Gli stimoli iniziavano a scarseggiare, così, ho cominciato con il rugby e non mi sono più fermata. Prima a Frascati e poi con le Red & Blu, la squadra di Corrado Mattoccia, che univa ragazze di Colleferro, Roma e Segni. Lì ho avuto la fortuna di giocare ed allenarmi con due Black Ferns, come le sorelle Linda e Aldora Itunu – ancora oggi pilone titolare delle ‘tuttenere’ -, giocatrici straordinarie (entrambe campionesse del mondo in carriera) dalle quali ho potuto apprendere molto.

Un’esperienza che hai condiviso anche con Melissa Bettoni, con cui poi sei sbarcata in Francia…

L’ultimo mese di stagione, nel 2010, Meli – che è probabilmente la ragazza italiana più forte con cui abbia mai giocato, nonostante una concorrenza notevole – venne a stare da me.

Parlando, entrambe scoprimmo di volere perseguire un’esperienza all’estero. Lei aveva dei contatti con l’Isere Sassenage, squadra di Grenoble, e mi mise in contatto con la dirigenza. Ci invitarono tra le Alpi, per vederci e per permetterci di provare qualche allenamento con il team, per capire se noi potevamo fare al caso loro e viceversa. Ci rendemmo conto immediatamente del livello pazzesco. Ad ogni modo, dopo aver provato, capimmo potesse essere un’avventura degna di nota e ci lanciammo.

Non avevamo neppure 20 anni. Mi ricordo che durante la preparazione atletica piangevo al termine di ogni sessione, perché mi faceva male qualsiasi fascio muscolare. L’impatto con una realtà del genere, forse più grande di noi in quel momento, fu incredibile.

Cosa ti ha lasciato in dote quell’annata?

Tantissima esperienza ad alto livello, anche perché ho quasi sempre giocato. E gli insegnamenti di un allenatore di mischia che mi ha lasciato in dote tante cose veramente interessanti.

La squadra, però, era giovanissima ed era appena approdata in massima serie. Perdemmo tutte le partite tranne una. Fare un’annata del genere è durissima: metti sul rettangolo verde ed in palestra qualsiasi briciolo di energia a tua disposizione, prendi botte su botte, ma non riesci mai ad ottenere un successo. Ad avere almeno un riscontro positivo di quanto fatto. A livello mentale è molto dura. Ma nonostante tutto, rifarei quell’esperienza sempre e comunque, anche perché adoro la Francia.

Dove c’è ancora una parte della tua famiglia, decisamente a trazione ovale…

Davide, mio fratello maggiore, gioca ancora là. Con lui non parlo molto di rugby. Discorso diverso invece con Gianmarco, impegnato con la Lazio nel Top12 – nazionale beach la scorsa estate a Mosca -, con cui sono cresciuta ed ho un rapporto speciale. Mi segue molto, mi dà consigli e ci si prende anche in giro. Anche io seguo lui. L’anno scorso ero a Padova per lo spareggio playout tra Lazio e Verona. Fu un pomeriggio denso di emozioni, fortunatamente, alla fine, positive (sorride, ndr).

Instagram Giordana Duca

Fu una salvezza incredibile…

La loro forza era il gruppo. Unitissimo. Durante l’anno furono molto sfortunati, con un quantitativo di infortuni incredibile. Ma non si sono mai, e dico proprio mai dati per vinti. Anche nel corso di quei tiratissimi 80′ decisivi. Un bel ricordo.

Nello stesso stadio, pochi mesi prima, hai raggiunto forse il punto più alto della tua carriera. Il Plebiscito sembrerebbe portare bene ai Duca…

Quella vittoria con la Francia – oltre a regalarci, in sé, un traguardo storico (il secondo posto nel Sei Nazioni 2019, nda), fu un qualcosa di incredibile, pure di inaspettato per certi versi. Vivemmo quella partita come se fossimo state travolte da un treno d’adrenalina in corsa prima del fischio d’inizio.

Entrammo con un’attitudine pazzesca e ci rendemmo subito conto che avremmo fatto grandi cose quel giorno. Per la prima volta, a Padova – nonostante sia conscia di dover migliorare ancora moltissimo sotto innumerevoli punti di vista -, capii di poter essere una giocatrice importante per la selezione azzurra. Anche solo un anno prima, quando debuttai, favorita anche da un infortunio a Valeria (Fedrighi, ndr), contro l’Inghilterra, avrei pensato fosse impossibile raggiungere un livello simile in breve tempo. Eppure, le cose sono andate molto bene, di pari passo alla crescita generale della squadra.

Hai giocato ad ottimi livelli anche le partite novembrine, sulla scia di quel super risultato. Invece, nel Sei Nazioni 2020 sei parse decisamente meno in palla…

Non è stata una grande partenza di Sei Nazioni. Contavo sulle ultime tre uscite per salire di colpi, ma sappiamo cosa è successo (sorride, ndr). Tornando al rugby giocato, purtroppo a gennaio ho avuto un problema alla schiena, che sicuramente ha inciso sulla mia condizione, e nei giorni precedenti alla trasferta di Cardiff – prima gara del 6N – mi sono beccata pure un fastidioso virus intestinale. All’Arms Park ho fornito una performance sottotono. In Francia, entrando dalla panchina, avrei potuto fare meglio. Rivedendo la partita attentamente, in tempi recenti, ho rivalutato un attimo in positivo la mia partita, ma sicuramente, nel complesso, non è stato un avvio di torneo sprint per me.

Vorrai rifarti nei prossimi mesi, tra Sei Nazioni e qualificazioni mondiali…

Non stiamo più nella pelle. Non vediamo l’ora di scoprire finalmente qualcosa in più su formula e tempistiche del torneo di qualificazione e sui recuperi del Sei Nazioni. E’ un chiodo fisso nei nostri pensieri. Faremo di tutto per centrare il pass per il torneo neozelandese. Al Mondiale, poi, dovessimo andarci, l’obiettivo sarà quello di giocare partita per partita come fosse quella della vita. Una volta che sei lì, ti giochi tutti gli incontri alla morte, senza porci un obiettivo che non sia quello massimo, ogni 80′. Con un pizzico anche di fortuna, possiamo toglierci tante, ma proprio tante soddisfazioni.

Qual è il segreto di questa Italia da quinto posto nel Ranking Mondiale? Tutti parlano del gruppo, ma ci sarà anche altro…

I grandi segreti non si rivelano mai (sorride, ndr). Sicuramente, come detto spesso da più ragazze, il gruppo unito è uno di quelli. Aggiungerei anche il fatto che interpretiamo il nostro impegno con una fame agonistica degna di nota, sia in allenamento che in partita. Vogliamo dimostrare che, pur non essendo pro – sei inevitabilmente meno perfezionista delle colleghe che hanno lo sport come prima ed unica priorità -, quindi ancora lontane dal livello medio di Francia ed Inghilterra, possiamo essere realmente competitive.

Al di là della Nazionale, come hai visto l’evoluzione del movimento in questi 10 anni?

Le cose sono migliorate, ma abbiamo appena iniziato un processo di crescita complessivo – tecnico, mediatico, di percezione del nostro sport declinato al femminile -, che richiede grande impegno e parecchio tempo. Se parliamo di campo, per mantenere questo standard, e possibilmente migliorarlo, nel futuro a medio/lungo termine, è fondamentale che aumenti il numero di ragazzine che si approcciano al rugby sin da giovanissime. Per alzare da un lato la quantità delle praticanti alla base della piramide, dall’altro, inevitabilmente, anche la qualità delle atlete al vertice, se selezionate all’interno di un contesto che alza esponenzialmente la concorrenza. Purtroppo, per le bimbe piccole, il rugby è ancora malvisto. Tanti genitori lo vedono ancora come sport violento e pericoloso, nonostante non sia assolutamente così. Se solo si avvicinassero senza atteggiamento pregiudiziale, probabilmente in molti lo comprenderebbero…

Un futuro caratterizzato da una diversa percezione dell’ovale femminile è nei sogni di tutto il movimento globale. Nei tuoi di sogni futuri, invece, cosa c’è, al di fuori del campo da rugby?

Mi piacerebbe aprire un ristorante mio. Ho lavorato nel settore, ed adoro cucinare. Preparo di tutto, dai piatti tipici della cultura culinaria romana a pietanze esotiche legate alle più svariate cucine in giro per il Mondo. Stiamo parlando di una mia grandissima passione (sorride, ndr).

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