Nel giorno che avrebbe dovuto segnare l’esordio Mondiale, abbiamo parlato con l’ex capo allenatore degli azzurrini
Alle 16 odierne, di domenica 28 giugno 2020, al Payanini Center di Verona, si sarebbe aperta – subito con una grande sfida a forti tinte azzurre (duello inaugurale contro il Sudafrica, sul gradino più basso del podio iridato nel 2019) – la tredicesima edizione del Mondiale di Rugby Under 20, la terza nel Belpaese (Viadana, Verona, Calvisano e Parma sarebbero state le 4 sedi di gara), dopo quelle del 2011 e del 2015.
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“Una competizione unica nel suo genere. Super impegnativa, estremamente stimolante per staff e giocatori. Il livello, per complessità generale, è inferiore solamente all’arena dei Test Match internazionali. Nelle ultime edizioni poi, si è pure elevato, con sempre più giocatori che nelle annate immediatamente successive salgono in prima squadra nazionale, con grandi qualità, a tutte le latitudini. In pochissimi giorni si giocano 3 partite, tutte decisive, in cui un punticino in più (o in meno) ti può proiettare alla corsa al titolo oppure a quella per non retrocedere. E’ un torneo incredibile, che mi piacerebbe vivere in loop”, esordisce ai nostri microfoni Fabio Roselli, colui che avrebbe dovuto guidare dalla panchina, in qualità di capo allenatore, la selezione azzurra alla rassegna casalinga, con una voce che condensa l’adrenalina generata dai pensieri legati agli scorsi anni, ed un pizzico di rammarico per quello che non è stato.
Roselli, ci tornate spesso, con la mente, a quello che avrebbe potuto essere?
Devo ammettere che, nonostante si sia tutti impegnati già su altri fronti (Roselli, in primis, è assistente delle Zebre, ndr), ogni tanto, anche con Andrea Moretti, il resto dello staff e il gruppo dei giocatori, ci si pensa eccome, con grande rammarico, a questo Mondiale. Chiudere, o per meglio dire non chiudere, un ciclo di lavoro triennale in questo modo non è bello né gratificante per nessuno. In più, c’era la consapevolezza di poter fare bene.
A mente fredda, quale poteva essere l’obiettivo reale del team?
L’obiettivo minimo era la conferma tra le prime 10, ma c’era la convinzione di portare a casa il miglior risultato di sempre, entrando tra le prime 7 al mondo, traguardo che avevamo avvicinato anche in passato, ma che mai come stavolta era alla portata. Come staff siamo cresciuti molto in questi anni, e in più, per quello che era l’approccio dei ragazzi al lavoro, dentro e fuori dal campo, e l’attitudine con cui affrontavano le partite, ci presentavamo alla rassegna con una consapevolezza mai avuta prima, nonostante, purtroppo, si sia chiuso forzatamente il Sei Nazioni con quel brutto finale di partita contro la Scozia.
Come è arrivata questa crescita?
Grazie al coordinamento del lavoro tra gli staff di CDFP, Accademia, nazionali juniores e club che hanno in rosa giocatori che militano anche nelle selezioni nazionali, oggi i ragazzi arrivano al livello della Under 20, che rappresenta una porta d’ingresso verso il mondo degli adulti, molto più maturi rispetto al recente passato. Decisamente più consapevoli dei propri mezzi. Oggi le squadre avversarie – in confronto anche solo a pochi anni fa – ci prendono sul serio. Da parte di chi ci affronta c’è grande rispetto sia per i ragazzi che per lo staff. Qualcosa che ci siamo conquistati un poco alla volta, che gratifica e che ti spinge sempre a migliorarti.
Quali figure hanno avuto un impatto preponderante in tale sviluppo?
Nelle riflessioni e nel modo di approcciarci al progetto, Stephen Aboud si è rivelata una risorsa dal valore incommensurabile. Ci ha seguito costantemente e sa sempre come piazzare la scintilla giusta per appiccare un incendio. Ci ha chiarito come lavorare al meglio per tenere il giocatore, prima di tutto, al centro della sua stessa crescita, dando importanza primaria al ragazzo, con proposte efficaci dentro e fuori dal campo. Lui è stata, è e sarà una figura di fondamentale importanza per la federazione.
Anche grazie alle sue linee guida, si è riusciti a convogliare ambizioni, passioni e competenze degli staff sulla retta via, nel modo migliore possibile. Prima – pensandoci con il senno di oggi – non ci si era mai uniti abbastanza, non riflettendo al meglio su strategie condivise sullo sviluppo di tutto il settore giovanile. Oggi si è cambiato passo, nonostante più di qualcuno, dall’esterno, non ne sia troppo convinto.
Ancora non basta…
Partiamo con un ritardo di fondo rispetto alle selezioni nazionali contro cui ci confrontiamo. Stiamo crescendo sensibilmente. Ma questo non è sufficiente, perché – banalmente – se sali di colpi a una velocità simile a quella dei tuoi rivali, ma loro sono scattati davanti, non li riprendi mai.
I miglioramenti sono sotto gli occhi di tutti. Lo testimoniano diversi aspetti, come i risultati validi delle giovanili, un poco a tutti i livelli, e come i feedback che ci sono arrivati nell’ultimo biennio relativamente ai giocatori passati per l’Under 20 da parte degli staff delle franchigie, con cui abbiamo un confronto costante, che si parli di Treviso con Kieran Crowley o di Parma con Michael Bradley. Parole a cui stanno seguendo anche i fatti, se diamo uno sguardo alla quantità di permit del ’00 che ad esempio ha messo sotto contratto il Benetton Rugby – a livello Pro14 – per la prossima annata agonistica, e che diversi permit zebrati escano a loro volta dalla squadra che avrebbe debuttato oggi al Mondiale.
Ma…
Eppure è evidente come – se si vuole pensare di competere anche al piano di sopra – serva fare qualcosa di più. Serva migliorare l’ultimo step di crescita, l’ultimo passaggio così importante. Quello che segue la fine del percorso giovanile ed introduce l’atleta nel mondo adulto. Non avendo un campionato interno che possa dare dei riferimenti realistici in ottica internazionale, è necessario che la parte di ragazzi – sia chiaro, sempre minima, ma comunque non banale rispetto al gruppone di 50 che monitoriamo ogni anno – della Under 20 che mostra di essere pronta sin da subito al Pro14, venga proiettata subito nel giro delle franchigie. In modo tale che possa inserirsi e testarsi in un ambiente caratterizzato da difficoltà simili a quelle che propone il livello internazionale, in termini di ritmo, impatti, abilità nel decision making.
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Chi sembra avere già sviluppato certi doti è Stephen Varney, notevole nelle prime due uscite al Sei Nazioni…
Eh (sorride, ndr).
Sappiamo, peraltro, che dal Galles hanno cercato di convincerlo, affinché giocasse con i dragoni in Under 20. Tuttavia, dopo aver affrontato il livello Under 18 con la maglia azzurra, Stephen ha confermato sin da subito il desiderio di proseguire con l’Italia.
Anche per quanto riguarda l’avventura Seniores?
Almeno per quello che l’abbiamo conosciuto in questo anno, per quello che abbiamo recepito, direi di sì. Non abbiamo potuto stare a lungo assieme a lui, purtroppo. Fu difficile, ad esempio, selezionarlo subito, a ottobre/novembre, perché essendo legato a Gloucester, che aveva due mediani della prima squadra (anche Braley, ndr) selezionati per i Mondiali, serviva restasse a disposizione dei Cherry and Whites. Problematica che si è ripresentata anche per la sfida contro la Scozia, quando non poté venire, perché – inserito a distinta gara con Gloucester – debuttò proprio quel weekend nel massimo torneo inglese.
Ad ogni modo abbiamo sopperito molto bene alla sua assenza. Avendo coinvolto in tutta la proposta formativa di crescita più di 50 giocatori, abbiamo sempre diverse soluzioni in ogni ruolo. Così, anche nei momenti in cui i giocatori più talentuosi erano out, abbiamo potuto contare su gente in grado di svolgere alla grande il proprio compito. Atleti che sapevano bene cosa fare sul campo, in relazione al nostro piano di gioco. Questo tema mi permette anche di svelare un’altra cosa che reputo molto positiva di questi ultimi anni…
Quale?
Grazie al miglior coordinamento complessivo della struttura giovanile, ultimamente si riesce a tirare fuori il meglio non solo da coloro che mostrano subito lampi di talento abbagliante, ma anche e forse soprattutto da diversi atleti che – ad inizio processo – non sono istantaneamente in grado di far la differenza. Ragazzi che magari lì per lì destano qualche perplessità sulla loro capacità di incidere ai massimi livelli, ma che dopo una conoscenza approfondita con lo staff ed un percorso di lavoro ad hoc, sono esplosi raggiungendo livelli di assoluto valore. Penso ad esempio a Davide Ruggeri o a Manuel Zuliani. Il primo è diventato addirittura capitano azzurro, e, dopo una stagione ottima in una piazza come Rovigo, sono molto orgoglioso sia stato preso in considerazione dal Benetton. Il secondo lo avete visto in azione in Galles quest’anno, e lo potrete apprezzare, a sua volta, con i Leoni.
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