Adattarsi per non morire: il rugby di base si piega al presente

Diciotto mesi senza giocare sarebbero un colpo gigantesco alla palla ovale, non solo in Italia. Le idee per ricominciare arrivano dall’Inghilterra

ph. Sebastiano Pessina

“E’ uno sport profondamente in difficoltà in tempi profondamente difficili che cerca disperatamente un modo per rimanere in vita” scrive Owen Slot, il principale editorialista del Times quando si parla di rugby.

Si riferisce al rugby amatoriale: la settimana scorsa la federazione inglese ha deciso di fermare tutti i campionati al di fuori della Premiership, del Championship e della Premier XVs, il campionato femminile. In Francia si è recentemente giunti a una decisione simile, mentre in Irlanda la federazione ha fermato il community rugby, la cui stagione era già incominciata, mentre vanno avanti allenamenti a gruppi senza contatto.

Una soluzione simile a quella promossa dalla FIR in Italia, dove tutti i campionato al di sotto del Top 10 sono stati rinviati a gennaio e l’attività di allenamento prosegue senza contatto.

Le certezze sull’effettiva praticabilità del rugby a livello non professionistico nella stagione 2020/2021, però, sono tutte da verificare. Il rischio è che questo anno sportivo possa saltare, portando la palla ovale di base a una difficile situazione: 18 mesi senza gare, senza competizione, provando a tenersi in piedi solo attraverso attività residuali.

Potrebbe essere un colpo gravissimo non solo per il rugby italiano, ma anche per quello di tutti gli altri paesi d’Europa.

Ecco che allora, in Inghilterra, si ricomincia a parlare di una versione del gioco adattata alle circostanze: un rugby modificato, al limite dell’essere snaturato, per riuscire ad attraversare il momento. L’idea era già emersa durante la scorsa primavera, ma era stata fondamentalmente respinta in ogni contesto, tutti disponibili ad attendere il passare della mareggiata per poi tornare in campo.

Solo che la fase di ritorno al rugby che conoscevamo è stata bruscamente interrotta, e attraversare una stagione intera senza poter giocare rischia di allontanare interesse, pubblico, giocatori, sponsor, educatori e chi più ne ha più ne metta.

Insomma: meglio giocare un qualche tipo di rugby che non giocarlo affatto.

Secondo quanto scrive Sloth sul Times, i club del community rugby inglese sarebbero disposti ad accettare una versione del gioco simile a quello disputato dal rugby femminile per concludere la stagione 2019/2020: niente mischie ordinate, niente maul. Ma gli stravolgimenti potrebbero essere ancora più pesanti, in modo da rendere lo sport il più sicuro possibile a livello sanitario.

Se il giocatore e l’appassionato storceranno sicuramente il naso di primo acchito, il grido d’emergenza di John Inverdale, presidente della National Clubs Association, riportato dal Guardian, non lascia molto spazio ad interpretazioni: “La grossa preoccupazione è che le persone trovino semplicemente altro da fare nelle loro vite. Non è un problema se ti chiami Bristol Bears o Leicester, ma è un grosso problema se sei un club di provincia come Blaydon, Worthing o i Dings Crusaders.”

La lega dei club di Inverdale ha lanciato lo scorso lunedì l’idea per una nuova competizione da incominciare a gennaio per rimpiazzare i campionati bloccati dalla federazione, ma le probabilità che si debba giocare con delle modifiche al regolamento sono alte.

“Penso si stia arrivando al punto dove giocheremmo a qualsiasi condizione” certifica Inverdale.

E se in Inghilterra le cose dovessero mettersi così, presto altre federazioni potrebbero imitare il modello e adattarsi alle condizioni del presente. L’alternativa, fondamentalmente, non esiste.

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