Le sue parole all’arbitro Gardner simbolo di una partita gigantesca e del suo modo di essere giocatore
Fino a sabato scorso i momenti preferiti della propria carriera in maglia argentina di Pablo Matera erano tre, e nessuno aveva a che fare con il risultato.
Il primo, come raccontato a Dario Gurevich della rivista sportiva El Grafico, risale addirittura ad una sconfitta di 60 punti contri gli Springboks, un 73-13 del 2013, la terza partita del flanker in nazionale. Il giorno prima Agustìn Pichot porta l’allora 20enne a prendere un caffé nella hall dell’albergo. Gli dice: “in campo, fai quello che ti pare. Scordati di quello che ti diranno, di quello che proverai: se ti va di calciare, calcia.”
“Il consiglio di Pichot mi tranquillizzò – racconta Matera – perché prima di quella partita ero nervoso e me la stavo facendo addosso.”
Anche il secondo e il terzo episodio che l’attuale capitano dell’Argentina preferisce fra quelli vissuti ha più a che fare con le persone che con il campo: il tempo passato con Juan Martìn Fernandez Lobbe in un tour, le emozioni del prepartita con i compagni, nello spogliatoio, prima del quarto di finale contro l’Irlanda del mondiale 2015.
L’aspetto della comunanza è particolarmente forte nel mondo del rugby da sempre, ma nella squadra argentina, complice anche il sentimento di comunità che è un tratto latinoamericano, assume una rilevanza ulteriore e si unisce al professionismo estremizzato dei tempi moderni, laddove invece sembra passare in secondo piano, sullo sfondo di quest’ultimo, in altre parti del mondo.
Pablo Matera lo ha esemplificato, se ne è reso campione, nelle fasi iniziali di Nuova Zelanda-Argentina, partita già nei libri di storia, tramandata di bocca in bocca ad ogni appassionato ovale del mondo. Quando l’arbitro dell’incontro Angus Gardner lo rimprovera per non aver mostrato l’esempio ai compagni rendendosi protagonista di una serie di strattonate e abbracci non troppo affettuosi in una scaramuccia appena conclusa, il capitano argentino si aggiusta il colletto e mette il dito sullo scudetto con la bandiera e il puma, che poi a dirla tutta sarebbe un giaguaro.
“Non posso stare a guardare un compagno preso a schiaffi. Sto giocando per il mio paese, quelli là devono mostrare un po’ di rispetto” replica, con la sicurezza di chi sa di averlo appena rappresentato nel modo migliore possibile, l’esempio da seguire.
Angus Gardner: ‘Let’s show some leadership’
Pablo Matera:pic.twitter.com/k4FFzvrlvc
— Ultimate Rugby (@ultimaterugby) November 16, 2020
Pablo Matera sarà un esempio per tutta la partita, cuspide di una squadra talmente ruvida da intimidire gli All Blacks, dopo un po’ stufi di prendere sberle e colpi ad ogni piè sospinto da questa manica di invasati in maglia biancoceleste.
Buona parte dei giocatori sudamericani hanno lavorato duro durante gli scorsi mesi lontano dai campi da gioco. Non soltanto Nicolas Sanchez e i suoi 21 chilometri corsi nel corridoio di casa, come recita il video diffuso dalla federazione argentina, ma anche i Marcos Kremer, Santiago Chocobares, lo stesso Pablo Matera, che si è presentato a fronteggiare la haka neozelandese con un collo taurino ancor più ipertrofico di prima.
E pensare che, quando per la prima volta colse l’occhio degli addetti ai lavori, il capitano dell’Argentina era un giocatore a cui qualche muscolo mancava per mantenere le promesse che già allora dimostrava di poter fare.
Una nota di Planet Rugby del 24 giugno 2012, immediatamente successiva al mondiale under 20 di quell’anno, lo identificava come il miglior prospetto argentino, ad un metro e novantaquattro per 98 chilogrammi.
“Sembra più una seconda linea che un flanker – recita l’articolo – infatti, non somiglia fisicamente a un classico rubapalloni. […] Considerando la sua taglia e le sue abilità in rimessa laterale, non saremmo sorpresi di vederlo in seconda linea per l’Argentina ai Junior World Championship del prossimo anno in Francia.”
Matera, cresciuto a Buenos Aires, era stato un piccolo prodigio come calciatore, un centravanti di belle speranze fino ai 15 anni, quando poi nella sua vita piomba il rugby. A 17 partecipa già ad alcune selezioni per la nazionale under 20.
“Tutto per me cambia quando inizio a far parte del Pladar (plan de alto rendimiento, una sorta di equivalente dei Centri di Formazione italiani). Prima, entravamo in campo per giocare: avevamo un paio di touche, un paio di giocate e nessuna altra cosa per la testa – racconta ancora Matera a El Grafico – Lì invece abbiamo incominciato a lavorare sulle abilità, come il passaggio. Un giorno facemmo 200 passaggi a destra e 200 a sinistra, 200 spin e 200 push. Oggi è così che ci si allena in Argentina, e questo ci rende preparati ad affrontare i vari aspetti del gioco.”
Si narra che in ritiro con i Pumitas, al mondiale giovanile del 2012, Matera svegliasse i compagni di stanza alle 6 del mattino. Senza quasi aprire gli occhi, ingurgitava una manciata di cioccolatini, stappava una lattina di Coca Cola e la beveva a grandi sorsi. Poi tornava a dormire.
In palestra non era lontanamente fra i migliori, ma dentro al campo già si intravedeva la capacità naturale di usare la propria forza per respingere i tentativi di placcaggio degli avversari. Una capacità che i Leicester Tigers decisero di non lasciarsi sfuggire, portando in Europa per la prima volta l’allora appena 20enne Matera.
In due anni a Welford Road, Matera vede il campo il giusto e l’onesto, ma la cultura del lavoro e dell’affinamento delle proprie competenze specifiche tipico dei club inglesi innalzano bruscamente il suo valore, tanto che quando torna in Argentina per giocare con i Jaguares, diventa subito una colonna portante: nei momenti di forma migliore, è uno dei flanker più in forma del mondo.
Negli ultimi 12 anni, Matera ha aggiunto al proprio fisico almeno dodici chili di massa muscolare. Una necessità per un giocatore fisico come lui, nel rugby contemporaneo. Senza dimenticare quel sentimento di comunanza, espresso dopo la più grande vittoria della storia del rugby argentino: “Tanti giocatori hanno indossato questa maglia prima di noi e devono essere orgogliosi come lo siamo noi oggi. Festeggiamo tutti assieme. Ci sono un sacco di ragazzi in Argentina che da otto mesi non possono andare ai propri club, non possono giocare a rugby con i loro amici. Giochiamo per loro, lo teniamo ben presente. Sappiano che oggi siamo entrati in campo per mostrar loro che tutto è possibile.”
Lorenzo Calamai
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