Alla base dei nostri risultati c’è un aspetto “culturale” che troppo spesso si dimentica o si finge di farlo
“Riceviamo e pubblichiamo”. I giornali importanti scriverebbero così. Per la nostra prima volta ci permetteremo di usare una frase un po’ più lunga: “riceviamo, condividiamo l’ottimo spunto di riflessione e per questo pubblichiamo”. L’articolo che segue infatti – inviatoci da Carlo Galiberti appassionato (ex)rugbista e nostro lettore – evidenzia un aspetto “culturale” che spesso sfugge o sembra voglia sfuggire.
Quello che ci piace di questa riflessione (che vorremmo aver scritto noi) è, oltre alla lucidità e alla passione che traspare, il mettere a nudo quanto spesso nelle considerazioni di noi tutti che “viviamo per il rugby e nel rugby” ci si dimentichi del contesto in cui è inserito il nostro sport in Italia.
L’articolo fa un paragone, ma non con una realtà specifica, al contrario di quanto molto spesso si tende a fare -portando come esempi risultati, budget, giocatori, tecnici, strutture e chi più ne ha più ne metta – con la tal nazione o la tal altra. Fa il paragone che sta a monte di tutto di ciò: tra il “DNA” del nostro movimento e quello delle nazioni con cui abbiamo la fortuna di confrontarci ogni anno nel Sei Nazioni.
Buona lettura.
Guardiamo qualche numero. Nei paesi di cultura rugbistica antica (quelli con le cui compagini perdiamo quasi sempre) il rapporto fra popolazione e praticanti effettivi va, grosso modo, dal 2 al 4%.
In Italia, oggi, tale rapporto si aggira intorno allo 0,10%.
Ma non è tanto questo il problema. Il problema è che l’Italia ha raggiunto solo recentemente questa percentuale a seguito di un lento e progressivo processo di crescita iniziato con l’ingresso nel Cinque Nazioni circa 20 anni fa. Un altro-ieri temporale prima del quale la proporzione era di svariati zeri prima della virgola.
Cosa significa questo? Significa che se oggi siamo dei principianti nel rugby che conta, fino a circa una decina di anni fa (a progresso in corso) eravamo dei veri e propri analfabeti.
Non è tanto, e solo, l’attuale gap abissale di diffusione del nostro sport rispetto a quei paesi che fa la differenza, ma è soprattutto il fatto che, anche nelle attuali contenute proporzioni, il fenomeno risale a meno di una generazione. Circostanza che rappresenta un handicap in più perché, a parità (che non c’è) di rapporto praticanti/popolazione, è la povertà di un “vissuto” rugbistico che fa di noi ancora dei praticoni.
Per fare un esempio, in Galles un giovane praticante ha quattro o cinque generazioni di appassionati alle spalle e si confronta con un mondo familiare, scolastico e sportivo di gente di tutte le età che parla, capisce e vanta il medesimo trascorso generazionale. Vede rugby in televisione da quando è nato, ne frequenta i campi e ne parla nei luoghi di abituale socializzazione, e come lui suo padre, suo nonno, i suoi vicini, amici e compagni. Il suo rapporto col rugby è verosimilmente lo stesso che ha un qualunque italiano con la palla rotonda in un paese, l’Italia, dove quasi chiunque è in grado di disquisire di moduli di gioco, tocco di palla o dribbling, e ne discetta tutti i giorni in quasi ogni contesto sociale e, minimalmente, quasi tutti hanno giocato, o giocano, a scuola, nei campi parrocchiali, fino alle rituali partite scapoli/ammogliati. E là nel rugby, come qua nel calcio, i concetti base sono appresi per capillarità, quotidiana pratica ed ereditaria confidenza.
Quando si dice che gli altri hanno più Storia di noi, non ci si riferisce solo ad una data di inizio del fenomeno, ma ad una sterminata e ramificata eredità cultural-sportiva risalente nel tempo che, anche a parità di iscritti, ci travolgerebbe per qualità. In qualsiasi paese anglosassone qualunque professore di ginnastica a cui è affidata la squadretta di rugby della scuola primaria vanta verosimilmente molta più competenza rugbistica di un nostro allenatore di serie C.
Il nostro ranking è lo specchio della nostra storia. E non è colpa di nessuno. E fa sorridere il disdoro dei tanti che contestano le sconfitte attribuendole alla presunta insipienza della dirigenza del momento. Che certamente avrà delle colpe, che tuttavia restano trascurabili rispetto all’immensa sudditanza culturale rispetto alle nazioni con cui ci confrontiamo. E siccome giochiamo sempre e solo con i migliori di noi, dovremmo solo accontentarci, ed abbassare il baricentro delle aspettative ad un grado consono alla nostra, peraltro, più che dignitosa realtà, se contestualizzata a livello internazionale.
Se volessimo usare un cinico sofisma potremmo affermare che più che i molto peggiori dei migliori siamo i poco migliori dei peggiori. Perchè il Rugby è così, non fa sconti. E fra il gruppo dei migliori e il resto del mondo c’è una voragine. Le formazioni che veramente possono meritarsi la definizione di peggiori delle migliori, e che di anno in anno si avvicendano all’ultimo posto delle Tier 1, (quelle vere), sono quelle che, seppur annoverando un numero di sconfitte maggiore delle altre, perdono con molto più onore di noi, vincono molto più, e mostrano una competenza, una aggressività e, in ultima analisi, una maturità rugbistica che garantisce in ogni competizione un equilibrio in termini tecnici ed agonistici che ne legittima a pieno titolo la presenza al cenacolo dei migliori, e una dignità agonistica che non consentirebbe a nessuno di metterne in discussione la partecipazione.
Per noi è diverso. La sconfitta è scontata, sempre, e la prestazione è quasi sistematicamente al di sotto degli standard minimi di appartenenza al torneo. Quando il risultato non è disastroso, c’è sempre il sospetto che l’avversario abbia voluto conservare forze e salute in vista di impegni più importanti nell’economia del Torneo. E la vittoria, relegata a situazioni episodiche, è il frutto di un concorso di fattori eccezionali la cui coincidenza appartiene ad una nicchia statistica.
Il progresso è lentissimo e a chi ricorda con nostalgia gli anni d’oro in cui venimmo accolti nel Cinque Nazioni per meriti sportivi (ma anche per convenienza economica) occorre ricordare che, a parte il fatto che esistono sempre le annate buone (e quelle lo furono più di ogni altra), eravamo costellati di fuoriclasse di formazione straniera senza i quali avremmo continuato a giocarcela con Russia e Romania in coppa FIRA.
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Ma una luce c’è.
È vero che anche le nostre formazioni attuali annoverano stranieri. Ma pochi fanno la differenza come la facevano allora. Salvo casi eccezionali, in quasi tutti i ruoli esiste un corrispondente giocatore di formazione italiana più o meno di medesimo livello.
Se un tempo alle nostre giovanili nemmeno veniva concesso di misurarsi con quelle di questi paesi, oggi vincono o perdono con dignità e con performance e scarti mediamente più accettabili di quelle dei seniores. Ed è lì che va misurato il progresso, perché si tratta di squadre composte da giocatori esclusivamente di formazione italiana.
I miglioramenti insomma ci sono e l’onda lunga di questo flebile progresso si vede già. Nelle ultime partite avevamo solo due o tre elementi di formazione straniera sui quindici titolari. E in fondo continuiamo a perdere più o meno con gli stessi scarti.
Poi ci sarà l’annata in cui invece di perdere di misura con l’anello debole di turno del Sei Nazioni, si vincerà. Magari ci sarà la volta in cui un po’ per fortuna, un po’ perché capita l’anno in cui funziona tutto e ad altri non funziona niente, ci scapperà la doppietta. Nonostante ciò la reale entità del miglioramento dovrà essere realisticamente valutata e accettata come impercettibile.
Con umiltà, consapevolezza e senza coltivare l’utopia che in un paese come il nostro possa avvenire una rivoluzione culturale così profonda da consentirci di raggiungere certi livelli. Lottiamo per raggiungerli, certo, ma accontentiamoci di blandirli consci, comunque, che si tratta di un privilegio concesso a pochi.
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