Il 69enne avvocato livornese, attualmente vice presidente, ci racconta il suo programma e la sua visione per il rugby italiano del prossimo quadriennio
Nino Saccà, 69enne avvocato livornese, è attualmente il vice presidente federale. Un’esperienza da giocatore al CUS Pisa, tra fine anni ’60 ed inizio ’70, e poi la lunga carriera da dirigente sportivo in ambito ovale, con presidenza del Rugby Livorno, e poi l’ingresso in Consiglio Federale, ormai oltre un quarto di secolo fa. Candidato di “Uniti per il Rugby Italiano” si propone ora, per la prima volta, alla carica di presidente FIR per il quadriennio 2021/2024. Così come gli atri sei candidati, lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata in cui ci ha illustrato il suo programma rispondendo alle nostre domande.
In fondo a questo articolo trovate il link per consultare le biografie e programmi completi di tutti i sette candidati, nonché i link per leggere le rispettive interviste che abbiamo pubblicato.
L’intervista si apre con una riflessione del vice presidente sull’ultimo quarto di secolo ovale, vissuto in prima linea, tra club e federazione: “Nella mia lunga militanza federale, ho potuto osservare e toccare con mano il grande cambiamento di questo sport negli ultimi 25 anni, in Italia e nel resto del Mondo: il passaggio dal rugby eticamente e rigorosamente amatoriale all’attuale versione globale del gioco”.
“La cosa che ho imparato è che la situazione va sempre analizzata nel contesto storico in cui ci si trova. Nel 1995 avevo un’idea di rugby, oggi ne ho un’altra così come credo dovrebbe essere per chi lavora nel presente di questo sport pensando di costruirne il futuro. In molti invece, soprattutto in Italia, sono rimasti ancora nostalgicamente legati legati a tempi andati, cosa che per quanto possa essere umanamente comprensibile, porta spesso a rimpiangere certe situazioni che sembravano migliori e che poi invece non lo erano poi così tanto”.
In questi anni in federazione, ho fatto parte di comitati e commissioni con gli altri nostri partner internazionali e mi sono reso conto che mentre loro spesso sembrano in procinto di poter fare un passo in avanti – ovviamente al netto dell’impatto del covid – noi pare si stia per farne qualcuno indietro”.
Perché pensa ci sia questa situazione?
In Italia c’è stato, e c’è ancora grande smarrimento perché non è stata presa una decisione netta sulla separazione tra quella piccola parte del nostro mondo che è Pro – e deve essere gestita come un’azienda, alla ricerca di risultati sportivi ed economici, quindi di risorse – e quella gigante che è indicativamente chiamato “rugby di base”.
Il professionismo c’è, e dobbiamo prenderne atto, cercando di sfruttarlo al meglio, senza demonizzarne i valori caratteristici, ma comprendendone appieno la sua utilità e importanza. Come detto, serve per raggiungere soddisfazioni sportive nell’alto livello, perché quando si parla di sport si parla sempre di meritocrazia e vittorie, ma anche, e forse soprattutto, per reperire fondi da innestare nel circuito ovale del movimento nazionale, la suddetta base, che è la parte di rugby che mi sta maggiormente a cuore, e che invece deve essere gestita come un’istituzione.
Con che visione, per la ‘base’, che è la maggioranza assoluta del movimento, sul lungo periodo?
Ho una sola visione, a lungo termine: quella che ci porti ad avere un movimento rugbistico proporzionato ad un paese come il nostro, che conta ben 60 milioni di abitanti. Quanti tesserati/praticanti rappresenterebbero un dato soddisfacente? Forse 190mila come la Francia, che ha circa i nostri stessi abitanti….Ma tutto è relativo, e andrà parametrato alle categorie future, quelle del momento, tra 10 anni, 20 anni, quando tireremo le somme. Di certo, però, posso dire che non possiamo accontentarci di un movimento con i numeri di oggi, con poco più di 500 società e 90mila tesserati. Senza voler emulare modelli come quello inglese, fuori portata, anche inserito in un contesto diverso: lì, gran parte dei praticanti è affiliato a federazioni scolastiche: impensabile da noi.
In termini pratici, quali sono le strategie per arrivare ad allargare la base, e far crescere il numero di tesserati?
Dobbiamo allargare, attraverso una comunicazione adeguata, il numero di persone che entrano in contatto, in età scolare, con il nostro sport. Queste non potranno ovviamente diventare tutte giocatori, ma in ogni caso, conoscendo la nostra disciplina, sarebbero considerabili come ‘stakeholders’ ovali, quindi come persone che nutrono un interesse, di vario genere, per il rugby.
Per fare del buon reclutamento, sul mero fronte dei giocatori, invece, è necessario che le società, che sono la figura deputata a svolgere questo compito sul territori e che devono avere una vocazione alla fidelizzazione di chi gli si avvicina, diventino accoglienti.
La federazione deve dare loro supporto indicando dei modelli che siano efficaci e premianti con line guida chiare su organizzazione, preparazione dei tecnici, etc.. Modelli che, ovviamente saranno diversi a seconda del livello di ogni società, e a cui i club devono provare a tendere, per cercare di diventare sempre migliori e non disperdere tesserati soprattutto tra i 12 ed i 14 anni, il nostro vero vulnus attuale.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, perdiamo molti tesserati nel passaggio Under 12/Under 14, e non dopo l’Under 18, quando sarebbe anche più comprensibile, alla luce delle scelte di vita che spesso una persona si trova a dover compiere attorno alla maggiore età. Evidentemente non si riesce a rendere la proposta adeguata alle richieste di quella fascia e/o a quelle dei genitori, perché ricordiamoci sempre che non sono solo i bambini/ragazzini a dover essere convinti di giocare a rugby, ma anche i loro genitori.
Si passa dunque dal territorio…
La volontà, per favorire la crescita dei club e delle figure che lavorano al loro interno, è quella di allestire una rete di strutture territoriali, poco centralizzata. Ogni reparto, locato al centro di una macro-area (ne abbiamo individuate 4, con 9 sotto aree), deve aiutare le società con i suddetti modelli, con servizi per lo sviluppo delle competenze dei tecnici, di campo e non solo, e dare supporto nel rapporto con le pubbliche amministrazioni locali. Quest’ultimo aspetto è variegato e presenta diverse incognite/sfide area per area, ecco perché ha molto più senso che sia la struttura territoriale a dare una mano, piuttosto che la federazione centrale.
Lei conosce bene la federazione nei suoi vari ambiti. Cosa serve lì, negli ingranaggi del palazzo?
Penso che in federazione si abbiano anche delle buone risorse umane, ma alle volte credo che non ci siano le condizioni, anche solo logistiche, per permettere loro di lavorare al meglio. La federazione deve migrare, rispetto a dove si trova, cercando di avere uffici e luoghi di lavoro più funzionali, e tendere verso il mondo UK, con cui abbiamo la maggior parte delle nostre partnership commerciali, quasi l’80%.
E’ il momento, poi, di prendere a bordo un segretario generale, soggetto con responsabilità estremamente importante: predispone, tra le altre cose, i bilanci e li presenta al consiglio. La sua nomina avviene in base alla scelta del presidente, come da statuto: è, di fatto, la figura che deve stare appresso ai conti della federazione, nonché che deve avere capacità e qualità per sedersi al tavolo con gli altri CEO delle federazioni con cui ci confrontiamo che ormai da un buon decennio sono guidate da figure che non hanno tanto un curriculum rugbistico, ma vantano grandi esperienze tra finanza e mondo dell’industria a 360 gradi.
Ha in mente un nome?
Era iniziato un processo di selezione, poi è stato sospeso e ne è già iniziato un altro: ci sono dei selezionati, tutti provenienti, come detto prima, da fuori del mondo ovale. Vorrei aggiungere anche un’altra figura importantissima…
Quale?
Quella del mansionario: colui che va ad indicare a ciascun soggetto in federazione – che sia dirigente, quadro o impiegato non fa differenza -quali sono i compiti da svolgere e gli obiettivi da raggiungere. Se vogliamo una federazione efficiente, che porti risultati e dia risposte chiare, tutti, ma proprio tutti quelli che sono coinvolti devono sapere cosa è richiesto loro quotidianamente.
Scendendo in campo, invece, come vede il percorso dei giovani, per entrare nell’alto livello?
Si inizia a lavorare sulla ricerca del talento, benché con modalità diverse rispetto al passato, sin dall’Under 16. Poi, ci sono i 4 CDFP – ai quali potrebbe avere un senso aggiungerne uno nel sud Italia -, che sono già istituzioni indirizzate alle selezione dei giocatori destinati all’Accademia Nazionale Under 19, che resterà, ma sicuramente non nel luogo dove è situata attualmente. Deve stare in un luogo baricentrico per sport e servizi di vario genere (scuole, aeroporto, stazioni), magari in un centro di preparazione olimpica. Chiusa l’esperienza in Accademia, poi, i giovani che non saranno già contrattualizzati direttamente da una franchigia, avranno un doppio percorso possibile: tornare al club di origine, oppure venire assegnati alle due franchigie in regime di giocatori di interesse nazionale, firmando un accordo con la federazione.
Benetton e Zebre avranno così rose da 60 giocatori, 25 dei quali Under 23, che formeranno così un vero e proprio development team all’interno della franchigia stessa, che nel corso della stagione, poi, affronterà – durante le finestre internazionali – una vera e propria competizione under 23, contro i pari età delle franchigie celtiche e dei team inglesi.
Esattamente come succede in Galles, Irlanda e Scozia, anche da noi, i tornei domestici non possono dare a questi giovani talenti il vissuto tecnico, tattico e mentale che ti può regalare un ambiente pro, dove sei aiutato ad esprimerti al tuo meglio, dalla professionalità dello staff e dalla straordinaria competizione con gli altri atleti coinvolti nel first team.
Peraltro credo che per le franchigie sia giunto il momento di alzare il livello dei giocatori stranieri: pochi, molto pochi, ma di grandissima qualità. Certo, costano caro, ma serve prendere delle decisioni forti e fare delle scelte: meglio spendere per 5 di valore relativo, o per 2 molto forti?
Ha citato le franchigie. Allora apriamo il capitolo Zebre. Come si pone rispetto alla situazione del team federale?
La forma spesso equivale alla sostanza. Allo stato attuale le Zebre hanno un amministratore unico – una persona sola al comando che riferisce ad un altro soggetto. Per quanto mi riguarda, il consiglio di amministrazione deve avere tre persone: un presidente, che sia anche rappresentativo e riconoscibile, ed altre due persone, una delle quali sia necessariamente un direttore generale. Una figura, quest’ultima, in grado di interfacciarsi con gli altri CEO celtici, come succede per Antonio (Pavanello, ndr) in casa Benetton, anche nelle riunioni con il board del Pro14. E’ importante che chi sia chiamato a partecipare a riunioni in cui si decidono cose importanti, come regolamenti o rinvii di partite, sia a contatto diretto, giornalmente, con la propria realtà: sia in grado di valutare che tipo di ripercussioni possa avere una decisione su quel contesto specifico. Ergo, fronte Zebre, una modifica del management, con la presenza di un direttore generale è strategica.
Passando al tema elettorale. Quando e perché ha deciso di candidarsi?
Ho deciso di candidarmi quando il presidente uscente Gavazzi, ormai diversi mesi fa, disse che avrebbe aspettato fino a novembre per sciogliere le sue riserve. Ho sentito fosse il caso di certificare la mia candidatura, per il movimento.
Ha sorpreso comunque, da osservatori esterni, vedere tre candidature in arrivo dal consiglio uscente. Possiamo parlare comunque di fronte Gavazzi? E come vede, in generale, la presenza di 7 candidati?
No, direi di no. Senza entrare nel merito, Alfredo e Paolo hanno preso le loro decisioni. Se hanno reputato opportuna e valida la loro candidatura, hanno fatto bene a presentarla. Il fatto di avere 7 persone al via della contesa elettorale non credo sia un qualcosa di catalogabile né come vivacità del movimento, né tantomeno come esercizio di democrazia. Anzi, c’è il rischio concreto che comunque vada a finire il processo elettivo, il movimento ne esca a pezzi.
Perché il rischio -concreto – che si arrivi a un presidente eletto al ballottaggio grazie al sostegno di uno o magari addirittura altri due candidati porterebbe ad avere un consiglio composto da una maggioranza bi/tri polare e da un’ opposizione oltremodo agguerrita.
Tutto il contrario di ciò di cui abbiamo bisogno: ci serve unità, con poche cose importanti da identificare come obiettivi, ma che devono poter essere fatte, senza intoppi o incidenti di percorso.
Lei si vede in grado di archiviare il successo quindi?
Uno va alle elezioni per vincere. Punto. Io mi batterò per portare avanti il progetto, mi metto a disposizione per un quadriennio, non per la vita: mi sono dato un termine, perché se non ci si da un termine, alla fine le cose non le si fa.
Ma nel caso di accordi, lei chi appoggerebbe?
Nelle mie cose, nel rugby e non solo, sono molto etico. Non appoggio nessuno, al di là della mia proposta, ovviamente. Vorrei che nelle prossime settimane, dei sette candidati attuali ne rimanessero 3.
Ma se lo augurano anche altri…
La mia proposta è inclusiva proprio nei confronti di tutti quei gruppi che hanno aspirazione: si tratta di un richiamo alla loro responsabilità. E vi garantisco che, in tal senso, ho ricevuto un riscontro positivo negli ultimi giorni. Il movimento, peraltro, ha la necessità di abbandonare il vestito autoreferenziale che indossa da sempre – un handicap culturale che ci zavorra – e guardare i suoi obiettivi in senso lato, con grande unità, non è che chi vince ed entra è un intelligentone e chi resta fuori è un cretino. Io mi metto a disposizione come uomo di garanzia. E quello per cui lotterò con tutte le mie forze è che si vada verso un processo unitario.
E credo che chiunque vinca, si debba istituzionalizzare la prassi: iniziativa/cronoprogramma – istruttoria/ consultazione – decisione.
Le biografie e i programmi completi dei sette candidati alla presidenza FIR sono consultabili a questo link.
Leggi anche: intervista a Gianni Amore – intervista a Elio De Anna – intervista ad Alfredo Gavazzi – intervista a Marzio Innocenti – Intervista a Giovanni Poggiali – Intervista a Paolo Vaccari
Cari Lettori,
OnRugby, da oltre 10 anni, Vi offre gratuitamente un’informazione puntuale e quotidiana sul mondo della palla ovale. Il nostro lavoro ha un costo che viene ripagato dalla pubblicità, in particolare quella personalizzata.
Quando Vi viene proposta l’informativa sul rilascio di cookie o tecnologie simili, Vi chiediamo di sostenerci dando il Vostro consenso.