L’Anonima Piloni ci racconta di quel giorno in cui sette minuti e un folletto gallese divisero la Scozia da un paradiso che avrebbe meritato
Questo fine settimana la Scozia, dopo l’impresa di sabato a Twickenham, ospiterà il Galles al Murrayfield nella seconda giornata del Sei Nazioni 2021. L’anonima Piloni ci riporta a un Galles-Scozia dell’edizione 2010 quando, in un Millennium ammutolito, gli Highlanders videro svanire la vittoria meritata fino a 7 minuti dal termine per mano del folletto gallese Shane Williams.
La migliore assicurazione sulla vita che puoi avere in campo, ovvero un calciatore con ottime percentuali di realizzazione, è fuori. Pazienza, hai già trovato un altro signore dei nembi in grado di mandare in crisi l’avversario, di prendere a calci l’imprevedibile. La tua ala, uno degli astri nascenti della squadra, è all’ospedale. Osso del collo rotto. Il suo sostituto è entrato e ha segnato subito. Dieci punti avanti, perché nel frattempo hai tirato fuori una prestazione collettiva di altissimo livello. E non a casa tua, non in un qualsiasi scalcinato campo di periferia.
A Cardiff.
Al Millennium Stadium.
Davanti a 74000 spettatori, la maggior parte di loro in silenzio.
Meglio, costretta al silenzio. Per 73 minuti.
Davanti a dei padroni di casa prima sorpresi e ora frustrati.
Non tengono un pallone, o quasi. È fatta.
Forse.
No, lasciate perdere, qua non è cosa per cuori in diffida.
E nulla è compiuto da queste parti prima che l’arbitro non abbia cantato tre volte.
In fondo lo dicevano anche i neozelandesi, in Galles (e contro il Galles) non si vince, al limite si segnano più punti.
Questi non muoiono mai. Ma proprio mai.
Non che gli scozzesi si arrendano al primo ostacolo, ma con questi non si scherza.
Solo che stavolta sembra fatta. Sta andando tutto nel migliore dei modi.
Il gioco stagna a metà campo, danno la palla a Shane Williams.
La danno sempre a lui, è lui il proprietario del genio a Swansea e dintorni.
Lo prende Scott Lawson, tallonatore di riserva. Lo placca.
Non lo molla mai però, nonostante l’arbitro gli urli di levarsi dai piedi.
Poi si stanca di parlare e fischia.
E tira fuori il cartellino. Giallo, ma di fatto è come un rosso, non rientrerà più in campo.
Piccolo effetto collaterale: il Millennium si sveglia.
Si scuotono anche i gallesi in campo.
No, non sarà più la stessa cosa. Inizia un altro match, lungo “solo” sette minuti. Che sono eterni, le lancette non girano più. Per referenze chiedete a Franco Bitossi, che a Gap si pianta sull’ultimo rettilineo e Marino Basso gli soffia il titolo mondiale. O agli Spurs, che proprio non si aspettavano 13 punti di McGrady in 40 secondi. O chiedete al buon Dorando Pietri, che crolla allo stadio, viene aiutato da un certo Arthur Conan Doyle e per questo squalificato dopo 42 chilometri e briciole di corsa solitaria e di fughe che nessun pastaio modenese prima aveva mai osato provare. Anche in Scozia sanno abbastanza bene quanto sanno essere lunghi pochi minuti, in certe condizioni. Basta farli tornare al 24 febbraio 2007, quando a Murrayfield arriva l’Italia di Berbizier. In sette minuti l’Italia segna tre mete, tutte e tre d’intercetto. Un 21 a 0 che gli scozzesi, in quell’occasione, avrebbero anche potuto recuperare, se lo choc di quell’inizio non avesse fatto scegliere loro di andare in touche ogni volta che l’arbitro metteva in bocca il fischietto. Dopotutto in campo c’hai Chris Paterson, che i pali li conosce come nessuno. Invece si prosciugarono in una rincorsa incompiuta, con Troncon che realizza la quarta meta in un groviglio di mani, piedi e teste. Lacoonte sarebbe stato fiero di lui quel giorno, fosse vissuto in Cornovaglia e dintorni.
Sono passati tre anni da quel grigio giorno di febbraio, qualcosa è cambiato.
È arrivato Andy Robinson in panchina, e già questa sarebbe una notizia: un inglese guida gli scozzesi. Ma ve lo ricordate Robinson? Era il coach dell’Inghilterra successore di Clive Woodward. Si era dimesso dall’incarico dopo che i Pumas avevano espugnato Twickenham a novembre del 2006. Nel 2007 riceve una proposta da Edimburgo: la franchigia scozzese ha bisogno di un allenatore che rilanci una rosa impoverita dai mercati inglesi e francesi. Robinson accetta la sfida e li porta subito al terzo posto in Magners League. Accetta anche l’incarico di allenatore della Scozia “A”, e il primo match in calendario è quello contro l’Inghilterra. Potete immaginare uno scenario migliore per un inglese “rinnegato”?
Vince lui, chiaramente. La soddisfazione…
Nel 2009 prende in mano la Nazionale maggiore. Ecco, i giocatori non sono poi tanto diversi da quelli già visti col precedente coach, Frank Hadden, ma nel novembre 2009 riesce a battere l’Australia di Matt Giteau. Come? Soffocandola con una difesa impressionante, tenendo bassi i ritmi e forzando i breakdown. E al debutto nel 6 Nazioni del 2010 a Murrayfied tengono benissimo il campo contro la Francia. Non segnano mete, come non ne hanno segnate contro Australia e Argentina a novembre, ma tengono in scacco a lungo la miglior squadra europea, quella che farà il Grande Slam di lì a qualche settimana.
Robinson, come detto, non cambia molti elementi tra i titolari, ma i pochi cambiamenti sono fondamentali: per prima cosa forgia una terza linea di livello assoluto, affiancando al veterano Kelly Brown due giovani, John Barclay e Johnnie Beattie. Barclay è un fenomeno nei breakdown, sporca qualsiasi cosa gli arrivi sotto tiro, è il Man of the Match nella clamorosa vittoria contro il Sudafrica a novembre. Beattie invece è un ball-carrier di altissimo livello, ma è limitativo dire solo questo: il numero 8 di Glasgow è uno dei leader silenziosi della squadra, uno in grado di mettere sempre in avanzamento, anche mentale, la sua squadra. Robinson sa che con questi soldati al Millennium può fare qualcosa di grosso, anche perché il Galles non è più quello dei Grandi Slam del 2005 e del 2008. Gatland per questo Sei Nazioni si affida ad un manipolo di veterani, capeggiati da Stephen Jones e Martyn Williams, con qualche giovane piazzato qua e là. No, non è ancora tempo per North, Cuthbert e compagnia cantante, ma c’è Leigh Halfpenny, schierato all’ala, e in panca c’è Sam Warburton. Non è questa la squadra che andrà ai Mondiali 2011, e Gatland lo sa benissimo. Al debutto non giocano nemmeno male a Twickenham, recuperando due mete agli inglesi, ma un intercetto su Stephen Jones chiude i conti a 5 dal termine.
Il Galles ha un grosso “buco” in campo, la terza linea non gira come dovrebbe. Martyn Williams e Ryan Jones cominciano a sentire il peso degli acciacchi e dell’età, Powell è un oggetto misterioso. Questa Scozia non può non approfittarne e, dopo una iniziale sfuriata gallese, comincia lo show degli ospiti: Barclay rompe un doppio placcaggio di Gareth Cooper e James Hook sulla linea dei 22 e va in meta. Cooper è la grande vittima del piano tattico di Andy Robinson. Il numero 9 dei Cardiff Blues non è mai stato particolarmente veloce, figuratevi cosa può succedere se la terza linea avversaria preme con quella veemenza e quella ferocia agonistica. Non è tutta colpa sua se lo schermo dei suoi avanti non regge, ma subisce troppo, e il gioco ne risente. All’intervallo Gatland lo cambia, non vedrà più la maglia della Nazionale.
Non è finita qui però: Robinson, oltre alla terza linea, ha rispolverato un’altra arma di quelle serie. E l’ha messa all’apertura. Già, perché il ct scozzese giubila di fatto Phil Godman, buon giocatore ma niente di più, e rimette in campo Dan Parks, fermo da quasi 18 mesi per via di una forma fisica andata e tornata con, mettiamola così, un po’ di ritardo. Parks è un australiano di Sidney, scozzese per via di nonno materno, ma scordatevi il classico playmaker spettacoloso in campo aperto alla Giteau o alla Quade Cooper. Questo in confronto è più sudafricano di Naas Botha: nel dubbio calcia. Ma lo fa bene e a ragion veduta. Centri e ali, non fosse perché dividono con lui pullman e alberghi in giro per il mondo, non lo riconoscerebbero in viso. La tattica non è del tutto avventata però, prima dell’avvento di Hogg, Visser, Bennett e Seymour, non è che ci fossero dei fenomeni tra i trequarti, se escludiamo Sean Lamont. Ma soprattutto perché dalle parti di Edimburgo deve essere arrivato qualche filmato della partita di novembre tra Galles e Australia, e allora qualcuno deve aver visto cosa hanno fatto Giteau e Cooper, due jazzisti prestati alla palla ovale, al triangolo allargato gallese. Indossano colletti bianchi e mocassini, poi è un insolito florilegio di calci tattici, up and under millimetrici, sventagliate chilometriche. E sotto, sempre e comunque, due ergastolani a portar pressione.
Robinson ripropone pari pari quello spartito e Parks lo legge alla meraviglia: i gallesi non respirano. Finisce che in casa gallese comincia a suonare qualche allarme. Parks butta dentro anche un drop, poi inventa la meta di Max Evans con un grubber da campione. Paterson sbaglia la trasformazione, sarebbe stato il trentaseiesimo calcio consecutivo tra i pali. Ma è da venti minuti che zoppica e non ce la fa più. Il punteggio dice 15 a 3 per gli scozzesi, che fanno quello che vogliono nei breakdown e non sbagliano nulla in touche. E con un dominio tattico del genere chi li ferma questi?
Li ferma uno dei loro, perché il match, improvvisamente, vive un dramma: Thom Evans, ala scozzese, elude due placcaggi e si trova di fronte Lee Byrne, estremo gallese. Lo affronta dritto per dritto, ma cade di testa e resta sotto, con Byrne che, nella foga di recuperare la palla, lo colpisce con una ginocchiata. Evans resta fermo. Il Millennium si produce in un silenzio irreale. È vivo, ma ha rischiato grosso e deve abbandonare campo e rugby. In campo resta il fratello Max, già entrato al suo posto per sangue in precedenza, e credo nessuno abbia mai voluto essere al suo posto in quel momento.
Poi la contesa riprende, il Millennium si rianima.
Ma fino ad un certo punto, perché la Scozia è furiosa.
Nel Galles sono soprattutto in due a scuotersi. Uno è Stephen Jones, che finora non ha quasi mai ricevuto un pallone giocabile, ma che si prende le sue responsabilità dalla piazzola e ci mette la faccia. Un altro è Jamie Roberts, meraviglioso primo centro, sia in difesa a suturare che in attacco a fare a sportellate. È soprattutto grazie a loro, e a una buona prova di Adam Jones in prima linea, che gli scozzesi non prendono il largo. Il primo tempo si chiude sul 18 a 9 per gli ospiti. Gatland cambia Cooper con Richie Rees, ma dopo pochi minuti Byrne non rilascia la palla nei suoi 22 e Parks non perdona. Fanno 12 punti di scarto, ma qualcosa comincia a muoversi. La Scozia sembra non essere più nella trance agonistica della prima frazione. In terza Kelly Brown lascia il campo stremato, la pressione comincia ad allentarsi.
Al quarto d’ora segna Lee Byrne in bandierina, che da questo momento in poi, insieme a tutto il Galles ovale, deve prendere e tirar giù il cappello ogni volta che passa Shane Williams dalle sue parti. Che giocatore. Ogni volta che lo vedi in campo, come quella volta con le Fiji, ti chiedi come faccia a resistere contro giocatori che potrebbero essere gli armadi in cui l’ala gallese troverebbe comodamente rifugio. Ma lui ha un cuore e due attributi grandi abbastanza per fregarsene. Anche di un primo tempo in cui gli scozzesi in campo sembravano 45 per quanti ne passavano dalle sue parti. È fantastico nel prendere la palla e debordare, creando per Byrne un corridoio vuoto, tutto da correre. Ed è assolutamente incredibile quando salta sopra due avversari ben più grandi e grossi di lui, sulla sua linea di meta, per chiamare il mark e salvarsi da un calcio maligno di Parks.
Solo che Parks poi riceve il calcio di alleggerimento gallese e spara un drop da 50 metri.
Centrando i pali. È ancora più 10.
Ho avuto la fortuna di vedere Dan Parks qualche anno più tardi, in maglia Connacht contro le Zebre. Ma scordatevi per un attimo del Connacht sorprendente e spettacolare di questi anni. A Parma quel giorno un trentacinquenne Dan Parks, dato da molti per finito, prese per mano una squadra equilibrata ma “normale” e segnò 23 punti tra piazzati, drop e trasformazioni. Un assolo di tomaia. Ecco, oltre alle qualità balistiche il vero valore dello scozzese di Sidney si misura qui: quando serve c’è. Eccome se c’è. E questa Scozia lo vedrà negli ultimi match del Sei Nazioni: metterà sotto pressione l’Italia a Roma, terrà in piedi la baracca contro l’Inghilterra (e ne viene fuori un pareggio) e poi batterà l’Irlanda a Lansdowne Road. E lo vedrà pure il Connacht, che sempre nel 2013 va ad espugnare Tolosa in Heineken Cup grazie anche al suo piede. Il piede di un giocatore che di “finito” ha solo le rughe del viso.
Anche il Millennium Stadium assiste allo show. E applaude.
In quella arena un torero del genere lo applaudi e basta.
Manca un quarto d’ora. Jamie Roberts ci prova con tutte le sue forze, è quasi commovente nei suoi tentativi, ma la Scozia regge. Nonostante tutto. Nonostante il piazzatore più letale d’Europa insieme a Jonny Wilkinson, una vera assicurazione sulla vita a questi livelli, sia fuori per infortunio. Nonostante un giocatore abbia dovuto abbandonare il mondo ovale per sempre con l’osso del collo rotto. Nonostante un Galles più reattivo e più presente di quello del primo tempo.
Mancano sette minuti, la palla ce l’ha ancora Shane Williams a metà campo.
La danno sempre a lui, è lui il proprietario del genio a Swansea e dintorni.
Ed è l’unico in grado, in questo momento, di inventarsi qualcosa così, su due piedi.
Lo prende Scott Lawson, tallonatore di riserva. Lo placca.
Non lo molla mai però, nonostante l’arbitro gli urli di levarsi dai piedi.
Poi si stanca di parlare e fischia.
E tira fuori il cartellino. Giallo, ma di fatto è come un rosso, non rientrerà più in campo.
Ciao.
I gallesi cercano la touche, la trovano sui 5 metri. Palla subito fuori, Jamie Roberts va oltre e riapre la partita. Ma non è meta, Warburton ha fatto ostruzione. Calcio per la Scozia. Parks, sfinito e coi crampi, non riesce a calciare fuori, e trova un Galles che risale furioso.
Il Millennium si è svegliato, il buon Lino da Canosa direbbe che sono volatili per diabetici. Byrne serve un gran pallone ad Halfpenny che corre sotto i pali. 21 a 24, mancano 3 minuti scarsi. La Scozia è alle corde ora, non se l’aspettava tutto questo. Jamie Roberts trova un offload meraviglioso per Lee Byrne. Ha un solo uomo davanti, Phil Godman, che nel frattempo ha sostituito Parks. L’estremo gallese calcia a seguire, trova il contatto con Godman e cade a terra. È giallo, Scozia in 13.
Stephen Jones non sa cosa fare, chiede all’arbitro quanto manca.
40 secondi.
Pali. Intanto pareggiamola, poi ne parliamo. Jones dirà che questa è stata una delle decisioni più difficili della sua carriera, ma la freddezza con cui centra i pali in pochissimi secondi non fa trasparire alcunché. È pareggio, ultima azione. Andy Robinson, che più avanti se la prenderà con Lee Byrne per aver esagerato il contatto con Godman, prova la mossa della disperazione e dice a Mike Blair di calciare direttamente fuori il drop con cui sarebbero ripartiti. Blair non lo fa, mancano ancora alcuni secondi allo scadere, sarebbe comunque una palla regalata. Il Galles prende in mano la palla. Jones vede gli scozzesi stretti in difesa, calcia all’ala. Il rimbalzo si fa beffe di Halfpenny, ma non di Byrne. Gli scozzesi placcano, sono disperati e anche un po’ frustrati, ma placcano tutto.
Solo che non possono coprire qualsiasi cosa se gli avversari hanno due uomini in più. E quando la palla arriva a Shane Williams a 5 metri dalla linea lo sanno tutti come va a finire. Si, la difesa è anche schierata, ma quello non lo prendi sui primi passi.
E lui pesta i piedi e schiaccia. 31 a 24. È finita.
Lo abbracciano tutti, ma proprio tutti, alcuni idealmente, altri meno.
Dan Parks forse lo farà al terzo tempo, ma non in quel momento.
È il Man of the match, un enorme Man of the match.
E lo sarà anche contro Italia e Irlanda.
Da settembre, tra l’altro, giocherà lì di fianco, all’Arms Park, casa dei Cardiff Blues.
Ma ha perso. O meglio: ha vinto sui 73 minuti. Che però non è la stessa cosa.
Applaude a lungo il Millennium Stadium. Anche gli scozzesi.
Soprattutto gli scozzesi, verrebbe da dire. Perché a Cardiff e dintorni sanno benissimo che le vittorie più belle sono quelle più sofferte, quelle in cui l’avversario si fa valere, si fa rispettare e ha il coraggio di far intendere a tutti che la vittoria è tutt’altro che scontata. Quelle in cui l’avversario cede, ma solo quando l’arbitro fischia, mai prima. Quelle in cui, per vincere, devi dar fondo a tutto, rischiare di perdere in ogni momento. In cui devi saper muoverti nel fango e in altre materie poco nobili, che poi ci penserà la vittoria a farti la doccia, casomai. E allora applaudono ancora più forte, quelli a Cardiff, anche per scacciare il freddo spettro della sconfitta che troppo a lungo ha aleggiato da quelle parti.
Sembra di assistere alle gesta di Franco Bitossi, che a Gap nel 1973 è meraviglioso protagonista, ma si arrende a Marino Basso e ad un rettilineo finale interminabile. Eterno. O a quelle degli Spurs, che non potevano prevedere che Tracy McGrady segnasse 13 punti in 40 secondi, quella sera. Sembra di assistere allo sguardo di Max Evans rivolto al fratello immobile a terra. Eterno, anche di più, come tutti gli sguardi di chi ha un familiare in quelle condizioni. L’orologio si ghiaccia, si cristallizza, non va più avanti. E se ne frega di quel che è successo fin lì.
Anche della Scozia, che è stata a lungo più forte, e lo sanno tutti bene, quelli là.
Le sono mancati sette minuti.
Ma sette minuti, poco più poco meno, sanno essere eterni.
Per tutti.
Cristian Lovisetto – Anonima Piloni
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