Italia, Inghilterra e le porte scorrevoli

A volte la differenza tra vittoria e sconfitta è una questione di sliding doors. Quella volta, sotto la neve di Roma, la porta ci si è chiusa in faccia

Italia-Inghilterra Sei Nazioni 2012

Italia-Inghilterra Sei Nazioni 2012 – ph. S. Pessina

Quell’Italia-Inghilterra dell’undici febbraio 2012 la ricordiamo per due ragioni: l’Olimpico innevato e la grande occasione per cogliere la prima vittoria della nostra storia contro il XV della Rosa. L’anonima Piloni ci racconta di quel pomeriggio e delle sliding doors.   

Uno dei dubbi più affascinanti che riguardano buona parte dell’umanità è esprimibile con una semplice domanda: “Cosa sarebbe successo se?”. Non ci credo che non ve la siate mai posta. Non so, cosa sarebbe successo se quella volta non avessi preferito ubriacarmi anziché passare il tempo con la ragazza più bella che avessi conosciuto in Erasmus, incredibilmente interessata a me, cosa mai presa in considerazione da nessun bookmaker. Cosa sarebbe successo se, che so, non avessi preso il caffè al bar quella sera e fossi uscito direttamente. Avrei evitato quel cane e non avrei sfasciato la macchina addesso? O forse la mia smania di sabato sera si sarebbe arrestata solamente più tardi?
Non lo so, davvero non lo so.

Le sliding doors costellano le nostre vite. Ad Hollywood hanno messo su un discreto successo di botteghino prendendo spunto da un film polacco degli anni ’80, Enrico Ruggeri ci ha ricavato una discreta trasmissione televisiva. Film e trasmissioni che ti lasciano un po’ con l’amaro in bocca, perché un finale di un film non lo puoi tenere troppo aperto, qualcosa te lo devi inventare. Forse avrei pianto un po’ di più alla stazione degli autobus il giorno delle nostre partenze, forse un posto di blocco mi avrebbe rovinato la serata. O forse avrei figli di madrelingua tedesca, o forse chissà.

Chissà, forse sotto la neve dell’Olimpico avrebbe potuto nascere una storia diversa. Di altre Grenoble, di altre Rome, perché quella ce la saremmo ricordata tutti come la Battaglia di Roma o altro nome simile e parimenti altisonante. Una gara brutta tra due squadre in due momenti diversi della loro vita, ma con tutti i crismi della grande giornata da ricordare. La prima volta all’Olimpico, sopra la neve, al termine di una settimana devastante per la vita della Città Eterna, tra allarmi presi sottogamba e servizi logistici in ambasce. Sono solo ottomila gli spettatori a lasciar vuoti gli spalti, la maggior parte dei quali bloccati da rotaie troppo scivolose. Perché il maltempo non ha bloccato solo Roma, e scendere in giornata con i mezzi e con quel clima è cosa rischiosa. Gli altri sessantamila ci sono tutti, e si preparano a scacciare via il freddo tremando, ansimando, esultando, bestemmiando e ingollando birra, chi più chi meno.

Laggiù, tra spogliatoi e campo, due squadre diverse che vivono due momenti diversi ma neanche troppo. Da una parte c’è l’Inghilterra, nobile ferita da un Mondiale finito troppo presto e bisognosa di un ricambio generazionale che faccia perdere il minor tempo possibile. Stuart Lancaster, il nuovo allenatore, attinge a piene mani dalla sua ex squadra, i Saracens. Da qualcosa devi partire, se hai uno zoccolo duro di fiducia tanto meglio. Ritorna in Nazionale Charlie Hodgson, che è ad oggi il top scorer della Premiership, ma che nei suoi anni migliori ha subito critiche su critiche non tanto per uno stile di gioco frizzante e scanzonato, quanto per la quasi totale mancanza di copertura difensiva. Un telepass, praticamente. Impietoso il confronto, secondo molti, con Jonny Wilkinson. Eh, grazie. Hodgson, però, fa parte di un piano ben preciso. Perché Lancaster sa bene di avere un bel talento per le mani, sempre sponda Saracens. Un altro numero 10, che però non si può bruciare al primo refolo di vento contrario. Non per ora. E infatti lo mette a centro. È uno dei fenomeni intravisti al Mondiale under 20 disputato in Italia, forse il giocatore più pronto per fare il salto, ma la prudenza non è mai troppa. Sta di fatto che Owen Farrell, per il momento, non gioca in cabina di regia. No, non è semplice ripartire, nonostante tutto. Nella prima giornata i bianchi riescono ad espugnare Murrayfield grazie ad un intercetto di Hodgson su liberazione di Parks, ma non giocano una gran partita.

Dall’altra parte c’è l’Italia, anch’essa con un nuovo allenatore e un nuovo tipo di concezione di gioco. Si passa al francese, dopo quattro anni di rugby di stampo sudafricano. Bel salto, non c’è che dire, anche se Jacques Brunel viene dal portare alla ribalta un Perpignan che, in quanto ad abrasività di mischia e avanti, aveva ben poco da invidiare a quanto insegnato da Mallett nei giorni buoni. Veniamo da un Mondiale in cui avevamo riposto qualche speranza di passaggio ai quarti dopo un discreto Sei Nazioni, speranze andatesene con i placcaggi di Bocchino e le provocazioni irlandesi a Mauro Bergamasco. Il gruppo azzurro non è da ricostruire. Da ritoccare, quello sì, perché qualcuno comincia ad avvicinarsi alle ultime partite ad un certo livello, ma la colonna vertebrale della squadra è ancora solida: Parisse, Castrogiovanni, Bortolami, Geldenhuys, Ghiraldini, Masi, Canale, McLean sono tutti lì. A questi si aggiungono i giovani: Tommaso Benvenuti, che aveva già debuttato nel 2010, Luca Morisi, che ha stupito da permit player a Treviso, e un’ala che, alle nostre latitudini, non abbiamo sempre avuto: Giovambattista Venditti è uno dei talenti più in luce nel panorama azzurro, sta facendo una grande stagione agli Aironi. Muove un fisico prepotente a una velocità sconsiderata. Non ha grandissime mani, ma quell’ovale lo porta sempre avanti. A Parigi la prima Italia di Brunel ha tenuto in scacco la Francia per un’ora, prima di soccombere alla maggior freschezza dei trequarti transalpini, ma c’è la sensazione che per il debutto all’Olimpico non si parta battuti.

Sempre che si giochi.
Perché Roma regala un ulteriore spruzzo di neve a teloni già tolti. Il risultato è un campo imbiancato e un ulteriore dubbio sulle decisioni dell’arbitro. Garces controlla, valuta e dà l’assenso, si può scendere in campo. E, come previsto, non partiamo battuti. Gli inglesi ci misurano la febbre con vari up and under e con varie incursioni degli avanti, ma la difesa azzurra, mai vista così avanzante, riesce varie volte ad incasinare i possessi a Ben Youngs, altro enfant prodige all’inizio di una grande carriera. Parisse e Castrogiovanni sono sugli scudi, Ghiraldini e Geldenhuys non sono da meno. Bortolami in touche non sbaglia un colpo. Marco non ha più il punch degli anni di Narbonne e Gloucester, ma è un giocatore cerebrale, una mente finissima, talmente bravo ad orchestrare il fondamentale che quando Ghiraldini lancia non rischiamo mai nulla, nemmeno di fronte a mostri come Mouritz Botha e Chris Robshaw. Quando abbiamo la palla in mano noi, però, non siamo così concreti. C’è da dire che a Kris Burton, ultimo giubilato prima della Coppa del Mondo, è stato dato l’ordine di cercare il più possibile l’avanzamento al piede, cosa non sempre possibile. Perdiamo un pallone d’oro dopo una bella fuga di McLean.

Il campo, però, lo teniamo bene. Abbiamo una difesa stretta, potremmo soffrire se gli inglesi allargassero il campo, ma lo fanno raramente. E, quando lo fanno, Ashton e Strettle, le due ali, non incidono come sarebbero in grado di fare. Preferiscono attaccare in massa sulla verticale, ma presentiamo due linee di difesa credibili e togliamo fiato alle altrui giocate. Rischiamo per la prima volta intorno alla mezz’ora, quando Parisse sbaglia una giocata in loop e getta il pallone nella terra di nessuno. Strettle e Burton si involano, si scontrano e Strettle rimane a terra. L’ovale finisce in mano a Benvenuti, che però viene sorpreso da Farrell. La palla finisce nella nostra area di meta e viene schiacciata da Dowson. Ci salviamo però, perché Garces ha visto un avanti del centro inglese nel placcaggio. E pure un fallo di Burton su Strettle, gli inglesi vanno per i pali. Farrell non è il ribaldo giocatore che conosciamo ora, ha lo sguardo timido e lineamenti dolci da ragazzino. I piedi, purtroppo, sempre uguali, 3 a 0. Si riparte, ma basta poco per perdere Castrogiovanni: Botha lo placca forte, troppo forte per alcune costole. Graham Rowntree, membro dello staff di Lancaster, esulta. Memore, forse, di che razza di pilone avesse in squadra a Leicester. Entra Cittadini, ma la prima mischia crolla, Farrell fa due su due da metà campo.

Già, da metà campo.
Non si fidano fino in fondo.
E alla prima occasione utile capiscono di averne ben donde: Burton calcia basso e trova impreparata la seconda linea di difesa inglese. Recupera palla Canale. Gli inglesi si difendono come possono sulla linea dei cinque metri, poi altro calcetto rasoterra. Il campo è dalla nostra, il rimbalzo pure, perché a Foden sfugge il pallone. Youngs, braccato da due azzurri, ricaccia indietro il pallone come può. Il primo a tuffarsi è Venditti, è meta. Il clima dell’Olimpico di quel momento la si è vista solamente in un paio di derby. È la prima meta nella nuova casa, la festeggiano tutti.

Qualcuno la festeggia un po’ troppo.
E si perde la seconda.
Eh, anche voi a considerare il tempo scaduto.
Burton calcia via il possesso dai nostri 22, il pallone non esce.
Gli inglesi allargano e la palla arriva a Ben Foden, professione estremo. Foden è un signor giocatore, è una delle stelle polari di Northampton, utilizzato soprattutto per le sue grandi capacità di contrattacco. Foden fa una cosa che ha molto senso, cerca l’intervallo esterno per andare oltre. Senza considerare, però, che la difesa italiana si presenta in forze. L’estremo inglese viene placcato duro da Zanni, ma le mani rimaste libere passano il pallone.
Non lo guarda, quel pallone. Lo passa, ma gli occhi sono altrove.
Solo che il passaggio a orecchio, nel rugby, è uno dei più grossi rischi che si possano prendere.
Ti salvi se ti chiami Carlos Spencer, e nemmeno sempre.
Ben Foden paga dazio.
L’ovale finisce in mano a Tommaso Benvenuti, salito per fare da spia e perciò in piena corsa.
Sul lanciato tiene a distanza Chris Ashton, meta in mezzo ai pali a tempo scaduto.

Eh, questa fa male. Farebbe male agli All Blacks, figuriamoci ad una Inghilterra ancora fragile.
E infatti nella ripresa gli inglesi si perdono. Sono brutti, testoni, si intestardiscono nel cercare il varco nel mezzo. Gli azzurri difendono con ordine e senza apparente sforzo. Anzi, quando conquistano il pallone sembrano averne di più. tanto che per ben due volte Tom Croft, uno che si è fatto un tour dei Lions, deve sgambettare un Sergio Parisse stratosferico. Ci sarebbero per ben due volte gli estremi per il cartellino giallo, ma Garces fischia solamente un calcio nella seconda occasione. Burton allunga, siamo avanti 15 a 6. Mai visti gli inglesi così nervosi.
E così involuti.
Perdono l’ennesimo pallone nel breakdown, Bortolami lo serve a Masi, Hodgson corre disperato verso il nostro estremo.
Andrea si prende un tempo in più del solito, ma calcia.

Uno dei dubbi più affascinanti che riguardano buona parte dell’umanità è esprimibile con una semplice domanda: “Cosa sarebbe successo se?”. Cosa sarebbe successo se avessi evitato la birra e avessi approfondito il tedesco? Cosa sarebbe successo se fossi partito prima?
E, soprattutto, cosa sarebbe successo se il pallone calciato da Masi fosse finito comodo comodo oltre la pista di atletica?

Perché quel calcio non finisce fuori, lo sappiamo tutti.
Hodgson alza le braccia, si prende una discreta pallonata, ma vola in meta. Strana la vita. Hodgson iniziò la sua carriera in bianco facendosi ribattere un calcio da un francese e proseguirà guadagnandosi la nomea di giocatore che non placca. È ad oggi il miglior marcatore della Premiership, ma niente e nessuno era riuscito a togliergli di dosso quelle macchie. Contro l’Italia segnerà la seconda meta d’intercetto e farà segnare al suo attivo undici placcaggi senza il minimo errore. Non male, come finale di carriera internazionale.

Andrea Masi insegue Hodgson, ma non può realmente prenderlo partendo da fermo. Nessuno vorrebbe realmente essere Andrea, in questo momento. Nessuno, paradossalmente, vorrebbe essere il centro più forte mai prodotto dal movimento italiano negli ultimi vent’anni, tramutato da necessità e generosità in un grandissimo utility back. Il suo calcio è di norma potente, uno dei più potenti tra quelli azzurri, ma i tempi di rilascio non sono quelli di un estremo di ruolo. Gli inglesi esultano, gli azzurri si guardano come troppe altre volte si sono guardati in queste condizioni.
E la partita cambia.

Perché gli inglesi quando annusano l’avversario in difficoltà cambiano volto, e pazienza se non hanno cavato un ragno dal buco per un’ora. Pazienza se fino a quel punto l’Italia ha sfoderato difesa, coraggio e lucidità superiori. Al dio degli inglesi, in questi e altri casi, non devi credere mai.
E la rimettono in piedi. Aumentano il ritmo, noi ci destabilizziamo. Rischiamo un paio di volte la meta, ma in qualche modo ci salviamo. Prendiamo però un calcio evitabile per un fuorigioco di Bortolami, in debito di ossigeno dopo un’ora a disinnescare la touche inglese. Poi in mischia Farrell porta i suoi sul 19 a 15.

Parisse non ci sta. Mario Rigoni Stern avrebbe fatto follie per un sergente del genere, nelle sue nevi. Certo, ha fatto degli errori, ma un incedere così, una fame del genere su un campo da rugby la sentono tutti, compagni e avversari. Sarà il man of the match, ma forse si fa prendere la mano con qualche decisione. Mancano dieci minuti alla fine, con una meta si potrebbe girare la partita, e non è detto che Robshaw e compagni la raddrizzino. Però andiamo due volte per i pali da posizioni rivedibili, viste le condizioni del campo. Alla piazzola si presenta Tobias Botes, sudafricano di stanza a Treviso. Non è fisicamente dominante, ma può giocare tranquillamente estremo, ala o mediano di mischia. E in pochi minuti è riuscito ad intercettare due palloni inglesi molto pericolosi. Brunel lo ha scelto come secondo mediano di apertura, è entrato poco dopo la meta di Hodgson per un Burton decisamente arrabbiato. Non è una brutta idea, nonostante la discreta prestazione di Kris, soprattutto in difesa. Botes è un discreto piazzatore a Monigo, ma per due volte prende pallone e sostegno, disegnando traiettorie disastrose.

La partita finisce di fatto qui, regalando una ulteriore iniezione di fiducia nella giovane Inghilterra di Lancaster. E un po’ di colore a Dallaglio e Guscott, vecchie glorie inglesi al lavoro per la BBC, convinte un po’ troppo presto di vincere e per lunghi minuti a corto di parole. A novembre, con gli opportuni ritocchi, i bianchi batteranno gli All Blacks in un Twickenham quasi lisergico.

Noi contro i neozelandesi giocheremo una signora partita, tenendo testa a Read e soci per più di un’ora, gettando le basi per uno dei migliori Sei Nazioni della nostra storia. Ma, tra i fiocchi di neve dell’Olimpico, l’ennesima porta scorrevole si è chiusa davanti ai nostri nasi. Una porta che forse, in caso di vittoria, ci avrebbe condotto non tanto alla prima vittoria contro una Nazionale ovale inglese, quanto ad uno status diverso, ad una maturazione più consapevole, ad un futuro roseo. O, forse, sarebbe stata solo l’ennesimo grande exploit dello studente talentuoso, ma senza continuità.
Non lo sapremo mai.
E resteremo con il dubbio.
Perché le porte scorrevoli di un autobus, di un treno o della storia non concedono dubbi.
Solamente rimpianti.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

Le altre puntate di Anonima Piloni:

Quella volta che a Grenoble si aprirono definitivamente le porte del Sei Nazioni

Spagna – Portogallo, il ballo dei debuttanti

Galles, Scozia, sette minuti e uno Shane Williams di troppo

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