Ci sono debutti che lasciano presagire un grande futuro. Altri, invece, rimangono delle grandi prestazioni isolate.
C’è stato un giorno in cui i tifosi inglesi si sono illusi: sembrava proprio che fosse arrivato il tanto atteso erede di Jonny Wilkinson. L’Anonima Piloni vi racconta come andò, e di come quel debutto sia rimasto il punto più alto nella carriera di Danny Cipriani.
Quando George Michael salì sul palco di Wembley, pronto ad omaggiare Freddie Mercury con Somebody to love, in pochi obiettivamente avrebbero scommesso su una sua buona prestazione. Eh, una atmosfera del genere non è mica facile da digerire, se devi sostituire uno dei grandi, con una orchestra del genere dietro e con un pubblico davanti con il quale non puoi scherzare troppo. Pubblico che su di te scherza eccome, perché nel 1992 George Michael è principalmente la voce degli Wham!, non esattamente il messaggero di testi impegnati, non proprio uno accostabile così vicino a quel mostro nato a Zanzibar.
Dimenticarlo? Impossibile.
Ma per quattro minuti – secondo più, secondo meno – il cipriota che tutti fino ad allora accostavano a Faith o a Wake me up before you go go, dimostrò a tutti che certe cose le poteva fare anche lui. Mica se l’aspettavano tutti, mica era facile prevederlo. Forse, quella sera, la musica internazionale aveva riscoperto a livelli assoluti un figlio che non pensava di avere.
Io non lo so se Freddie Mercury sia (non fosse, sia, in quanto ancora vivo in tutti noi) nei vostri cuori nella stessa misura in cui è presente nel mio, ma io credo che un talento del genere, declinato in forme diverse, sia tuttora presente solamente in pochi bipedi senzienti su questo pianeta. Uno di questi è senza dubbio Jonny Wilkinson, il figlio prediletto del rugby inglese in grado di portare al titolo l’armata dei papà, ovvero l’Inghilterra edizione 2003. Non credo serva ricordare cosa fece in quell’edizione della Coppa del Mondo, non credo serva ricordare cosa fece quattro anni più tardi, con una Nazionale nettamente inferiore e in un momento in cui era difficile pensare ad un ritorno a quei livelli. Sta di fatto che i ventinove anni di Wilkinson, per quello che gli hanno tolto e regalato, valgono almeno quattro vite delle nostre.
Sì, ma quanto durerà ancora? Per quanto dovrà fungere da re taumaturgo ad una generazione mai baciata dal talento quanto quella precedente?
Bisogna farlo rifiatare e, allo stesso tempo, costruire il futuro del ruolo. Con Charlie Hodgson ed Andy Goode buoni ma non eccellenti, con Shane Geraghty e Ryan Lamb non esattamente costanti ad alto livello, Wilkinson sembra dover portare la maglia bianca numero 10 ancora a lungo.
Qualcosa però si muove, perché a Coventry qualcuno ha visto qualcosa di interessante. Con la maglia dei Wasps insegna – perché solo certi giocatori hanno giocato col piglio del professore – un ragazzino di vent’anni, figlio di un trinidegno di origini italiane. Ha iniziato col calcio, cosa che gli ha lasciato in eredità un modo tutto suo di pettinare la palla ovale, ed è completamente ambidestro. Attenzione: non è questione di essere forte di destro e di sinistro, è questione di essere fortissimo sia di destro che di sinistro. Una velocità di pensiero e dei garretti spaventosi, tali da renderlo più veloce delle ali che di solito si diverte ad alimentare. Non è esattamente un chierichetto, a volte qualche suo comportamento imbarazza il sistema che gli gravita attorno, ma nessuno ha intenzione di farglielo pesare. E se un sistema ad alto tasso di scandalo come può essere quello inglese tende a far giocare Danny Cipriani, beh, vuol dire che il ragazzo ha qualcosa in più rispetto alla media. Nel 2008 il commissario tecnico Brian Ashton lo convoca per il Sei Nazioni e decide, almeno per le prime partite, di concedergli pochi minuti alla volta. Non inciderà nel rovescio interno contro il Galles, mentre contro l’Italia un suo calcio di liberazione viene intercettato da Simon Picone e riaprirà la partita. Gioca male, quell’Inghilterra. In campo molte volte dà l’impressione di non saper cosa fare con la palla in mano, e non è che il piede tattico venga esattamente come si converrebbe. Contro gli azzurri si arrabbia perfino Brian Moore, compassata voce della BBC, che all’ennesimo calcio errato si lascia andare ad improperi che non si sono sempre sentiti da quei microfoni. Davvero, se di solito il massimo consentito era uno stizzito sarcasmo, quel giorno si arrivò a un battito di ciglia dalla mannaia.
Gioca male nonostante Jonny, che risolve ancora numerosi problemi, ma che ha bisogno di riposo.
La consacrazione per Danny Cipriani avrebbe dovuto esserci a Murrayfield. Niente maglia numero 10, estremo, per assaporare l’ambiente. E invece niente, il ragazzino si fa beccare all’uscita di un night nella settimana che precede il match. Oh, i paparazzi se li sarà pure inventati Fellini, ma gli inglesi mica hanno mai perso tempo. Fuori per comportamento inappropriato. E allora, con la Calcutta Cup che resta ad Edimburgo e nessuna speranza residua di vincere il Sei Nazioni, il ragazzino dirige l’orchestra in quel di Twickenham.
Non è facile, però. Dall’altra parte del campo c’è l’Irlanda, altra grande delusa del torneo. È una squadra in là con gli anni, con pochi nuovi virgulti di livello. Uno di questi è Rob Kearney, che dopo pochi minuti va in meta. Ronan O’Gara arrotonda il punteggio fino al 10 a 0. Va bene che il torneo ormai è andato, va bene che ci saranno tempi migliori, ma Twickenham merita spettacoli migliori. Gli inglesi a volte no, ma l’ex campo di cavoli è un palcoscenico da pestare come si deve. Il ragazzo, allora, finalmente a suo agio, mostra quel che sa fare: un paio di liberazioni chilometriche, un grubber delizioso a far girar la testa il triangolo allargato irlandese, un piazzato facile per accorciare le distanze.
Certo, facile, i pali sono lì, ma in templi come quello lì le porte a volte si restringono come per magia. L’Inghilterra a poco a poco risale, anche perché il piede del numero 10 la fa giocare sistematicamente quaranta metri più avanti. Difficile farla giocare anche bene: l’Inghilterra del 2008 non è esattamente una versione ovale dei Queen, sembra più una scalcinata tribute band, di quelle che sostituiscono l’assolo di chitarra flamenco di Innuendo con il playback. Musicisti onesti, ma poco più. Il pargolo però alza il livello di tutti, rende pericolosi dei discreti comprimari quali Lipman e Vainikolo, manda in meta Sackey, piazza ancora il calcio del sorpasso.
Lo ricorda un po’, quel cipriota, difficilmente accostabile ai Queen, ma incredibilmente a suo agio nel bel mezzo del tempio della sua arte.
Poi Jonny si alza dalla panca. Entra, ma da centro, lascia a Cipriani l’onore di terminare il match col microfono in mano. E Wilkinson, dietro, lo guarda con la stessa approvazione con cui Brian May, quella sera, guardò George Michael.
La sensazione è che quel Danny Cipriani sia il nuovo 10 di cui l’Inghilterra non potrà fare a meno negli anni futuri: un talento della madonna, due piedi fatati, pure belloccio. E pure dotato di una parlata senza freni, come testimonia quel “fucking”, non propriamente il più shakespeariano dei rafforzativi, preso in pieno dal microfono della BBC in una intervista a fine partita. Un vero cult hero, così diverso da tanti altri giocatori parchi di parole o quantomeno non a proprio agio, intimiditi davanti ad un microfono.
Sembra la fine della stagione in cui uno starnuto di Wilkinson allarmava i piani alti della Federazione.
Non sarà così.
Il ragazzo si sbriciola una caviglia a maggio, ma è pronto per i test di novembre contro il meglio dell’emisfero sud. Solo che infila un tristissimo novembre ovale: maramaldeggia sì contro i Pacific Islanders, ma Australia e Sudafrica sono due macchie scure sul suo curriculum, con tanto di intercetto di Ruan Pienaar su suo calcio di liberazione. L’ultimo match, quello contro gli All Blacks, lo vivrà dalla panchina.
Da lì in poi, in Nazionale, poco. Pochissimo.
Anche perché se davanti ad un microfono il ragazzo tende più ai fratelli Gallagher che ad Al Bowlly, fuori dal campo non può essere propriamente un monaco di clausura. Distrugge macchine, si fa ritirare la patente, esce con modelle mozzafiato e si fa beccare ancora all’uscita di qualche night. Non è più aria, se ne va in Australia, lo cercano i neonati Rebels. Segna 18 punti al debutto, poi tra le altre cose si fa beccare fuori da un locale con una bottiglia non esattamente pagata. Al di qua dell’Equatore, Martin Johnson non gli perdonerà facilmente l’avventura australiana e non lo considererà per la Coppa del Mondo del 2011, preferendogli Toby Flood. Non esattamente un brocco eh, semplicemente uno che alla sera rincasa a ore decenti.
Tornerà in Inghilterra, sponda Sale Sharks, nel 2012, inanellando un paio di buone stagioni e il ritorno in Nazionale. Segnerà anche una meta all’Italia, nel 2015, ma Farrell e Ford hanno cominciato a fare i fenomeni, lo spazio diminuisce enormemente. Eddie Jones gli lascerà la bacchetta in mano in una tournée contemporanea al tour dei British and Irish Lions in Nuova Zelanda, l’ultima sua apparizione in Nazionale.
Quando George Michael salì sul palco di Wembley, pronto ad omaggiare Freddie Mercury con Somebody to love, in pochi obiettivamente avrebbero scommesso su una sua buona prestazione. Ma per quattro minuti – secondo più, secondo meno – il cipriota che tutti fino ad allora accostavano a Faith o a Wake me up before you go go, dimostrò a tutti che certe cose le poteva fare anche lui.
Anche Danny Cipriani, in quel marzo di Wembley, fece vedere al mondo che la cabina di regia inglese, un giorno, avrebbe dovuto e potuto essere sua, anche se il Re taumaturgo continuava a rimanere vivo nei cuori di tutti.
Se solo lo avesse voluto fino in fondo.
Ma se lo avesse voluto, forse, non sarebbe stato Danny Cipriani.
Noi, per non sbagliare, rimaniamo sotto il palco. Non si sa mai.
Cristian Lovisetto – Anonima Piloni
Le altre puntate di Anonima Piloni:
Quella volta che a Grenoble si aprirono definitivamente le porte del Sei Nazioni
Spagna – Portogallo, il ballo dei debuttanti
Galles, Scozia, sette minuti e uno Shane Williams di troppo
Italia, Inghilterra e le porte scorrevoli
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